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Circoscrivere, o almeno tentare di circoscrivere, il percorso artistico dell’artista cesenaticense  Alan Gattamorta è un’impresa piuttosto ardua tale è l’azzardo, l’ecletticità, la curiosità, lo studio, l’applicazione costante e metodica con cui si getta in ogni nuova avventura estetica. Sono ambiti artistici vissuti abitualmente come separati e differenti, ma che lui attraversa grazie a riflessioni personalissime, mantenendo una tensione speculativa sempre estrema. Non si tratta di contaminazioni, di slittamenti di codici, di tendenze, di flussi: lui è sconfinante per natura, geneticamente lontano da ragioni mercantili o di tendenza, con le mani immerse sempre e comunque nella materia, poco importa che sia tempera, creta o vetro.

Il suo percorso è partito dal mosaico per approdare a scultura, ceramica, pittura, e, scivolando dolcemente in profondità da una tecnica all’altra, è riuscito a rimanere sempre fedele a se stesso, a quella sorta di anatomia poetica che attraversa come un lunghissimo fil rouge tutta la sua produzione.

Il suo mosaico era lontano dalle preziosità bizantine, esplorava altri itinerari che ridavano dignità a terracotte sbriciolate, a residui archeologici della nostra contemporaneità, trasformandoli in oggetti magici e stupefacenti: otri fitomorfici costruiti seguendo orditi vegetali, fontane tentacolari che rievocano il pulsare  lunare di una cellula. Lo sguardo di Alan consegna ancora come allora uno strano incanto ai suoi lavori; affonda nel cuore segreto delle cose e lo amplifica, lo ricostruisce, svelando una sua visione del labirinto del mondo, della natura. E lo fa dilatando le tessiture di un

cristallo, le vibrazioni opalescenti di un vetro, inseguendo i tentacoli salmastri di un calamaro, ritrovando analogie formali tra dimensioni in apparenza distanti. Alan è un po’ zen in questo: orientale nell’approccio, nella forma mentis, nello sguardo, nella mano, in grado di trascrivere la bellezza dell’infinitamente umile svelandone i ritmi con la leggerezza di un haiku. Poche parole accuratamente scelte ed il massimo effetto.

Là dove il nostro occhio scivola con noncuranza, lui riesce, sorprendentemente, a trovare stupore e poesia. Così nascono questi ultimi acquerelli, freschi ed immediati nel gesto, lievi e diafani come ali di farfalla, calligrafici e raffinatissimi. Eppure, nonostante l’apparenza, mai prodotti da un automatismo, ma diretti da un’intenzione, da una volontà vigile e consapevole.

Allo stesso modo, da quelli che secondo Alan sono acquerelli non riusciti, prendono vita i grandi sipari di carte, dove ritorna l’analogia con il mosaico, quello dei pannelli, dei vasi modulari in ceramica, quello delle origini della sua storia di artista.

E ritorna anche il rapporto privilegiato con gli scarti, quello stesso che in passato lo ha portato a sostituire con pezzi di mattoni le tessere musive di pasta vitrea, a scegliere l’umile invece del prezioso.

Le carte sono strappate, tagliate con un gesto sempre calcolato e rigoroso, lontano dalla casualità; vengono ricomposte, addensate l’una sull’altra come ere geologiche, stratificazioni di memorie o sogni. Diventano collages pittorici, squisitamente fragili e tonali. La lacerazione stessa sembra essere vissuta come un rituale nel quale si muore sempre per rinascere in un’altra forma, in un altro posto. 

Alan Gattamorta: opere recenti

di Sabina Ghinassi