Capitolo  10

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I dieci anni di proroga risultarono tranquillizzanti, ma le ceramiche continuavano a farmi dannare, perché ero così completamente sfinito, che i soggetti mi venivano subito a noia. Per potermi impegnare dovevo prefiggermi sempre di più, in un crescendo che mi faceva temere il tracollo. Tornai sul tema dell'equilibrio che lasciai subito perdere. Rivisitai il filo di ferro. Modellai una specie di strudel di ricci metallici, zolle di creta e colature di vetro, diedi fondo al mio repertorio, e sfornai un disegno. Un gran bel disegno, direi. Un disegno a rilievo, una scultura di segni; ma lì dove chiunque avrebbe delimitato una proprietà, non raccolsi invece più nulla. Fabbricai in seguito qualche palla di spranga, poi ne tentai senza armatura, per metterle a punto ne ruppi tre, così lasciai perdere dopo la prima che ottenni.

Mi colse un'istantanea indifferenza. Guardai le poche sculture che avevo prodotto, e mi domandai: "Ma chi ti obbliga? Per chi le costruisci, che non le capisce nessuno? Quelli che sanno apprezzare la qualità materiale delle cose, non distinguono generalmente quelle così come sono, chi le intende chissà dove si nasconde, e chi si impiccia di opere d'arte, non sa del così com'è, né di come si fabbrichi. Che dire di questi? Chi li conosce?

 

*

 

Dei critici, non so niente. Delle recensioni non leggo mai più di due righe, che scorro mal volentieri tanto per scrupolo: non si sa mai, delle volte, chissà? Invece, niente, niet, nada de nada. Per cui, non avendole mai trovate interessanti, non mi sono mai interessato di chi le redige. Ai critici che invitavo in studio prestavo attenzione soltanto per quel poco che vi sostavano, e quando proferivano delle osservazioni attinenti me ne stupivo parecchio. "Come è possibile?" chiedevo a me stesso"Come ha fatto? Da dove è passato? Per me, è diverso: ci sto, ed è più facile. Vengo frastornato dal coinvolgimento, ma usufruisco del riscontro pratico, e se l'opera non mi consentisse delle verifiche, non saprei orizzontarmi. Ma che testa ha, questo critico? Dev'essere un genio!"

In somma, se gradiva il mio lavoro lo giudicavo in gamba, e l'incontro risultava solitamente piacevole, però al termine si arrivava sempre al "Caro caro, bravo bravo, arrivederci e grazie" lo accompagnavo all'uscio, e lo osservavo allontanarsi soddisfatto senza che riuscissi a capacitarmene: "Tutto qui?" pensavo "Ma come? Gli artisti sono delle mosche bianche, di critici sono pieni i fossi, e questo da cui mi faccio trovare non approfitta della scoperta? Chi li capisce, i critici?"

Non mi riuscì di inquadrarli, finché non visitai l'abitazione del più cordiale che conobbi, così che osservando i pezzi della sua raccolta, ricevetti un'illuminazione istantanea: "Lui che gradisce sta' roba" mi dissi "Capisce la mia? Non è possibile! E' volenteroso, preparato, curioso, acuto, colto e intelligente, nelle sculture che fabbrico sa leggere delle implicazioni che non sospettavo, però, non coglie la specificità dell'opera, per cui mi pare sbagliato giudicarli ignoranti, perché discriminano una vasta gamma di aspetti, ma quel sapere non ne fa degli esperti, perché non gli consente di riconoscere le insensataggini. Sta lì, il loro tallone di Achille: non vedono il brutto! Sicché, cosa criticano?"

I critici constatano un'infinità di dettagli, ne rintracciano la genealogia, poi accertano i modi in cui viene riciclato il già fatto. Sanno fare unicamente questo ed è forse utile che vi si impegnino, però, non dovrebbero allargarsi, perché sono capaci soltanto di inventariare il carico, senza avere consapevolezza dello scafo che effettua il trasporto. Stanno sempre a trafficare in sentina! Misurano la barba di un profeta, la confrontano col crine di un cavallo di bronzo, poi si baloccano a rollare da un compartimento all'altro sino al loro spazzolino da denti. Che accidenti ne sanno, di mare e di barche? Sanno solo che gli gira la testa, questo, sanno. Sanno che l'opera gli suscita un capogiro, tant'è che finiscono per gradire anche le randellate, per cui, cosa criticano, i critici? Criticano il loro personale stordimento. Alcuni, sono sinceramente appassionati d'arte ma, come chiunque non ne produca la valutano soltanto attraverso lo sbandamento emotivo che gli procura, e quel metro, li annebbia. Li annebbia avvertire qualcosa che non può essere circoscritto da ciò che conoscono, così finiscono per considerarsi eccezionalmente consapevoli dell'inesplicabilità di quello che non sanno. Perché lo sanno, di non saperne nulla, i migliori, lo sanno bene, non sono mica stupidi, tuttavia, il prolungato sballottamento artistico li abitua a rilevare anche le oscillazioni più lievi, si scoprono più avveduti di quei sempliciotti degli artisti, al che finiscono col reputare l’opera una sorta di materia vergine certamente speciale, ma ancora bisognosa di un vate che ne ritualizzi l'essenza misterica, e lì, se la menano. Se la menano pavoneggiandosi nella significazione del demenziale, dell'inesistente, dell'orrido. Sciorinano un’infinità di sciocchezze! Però non bisogna supporre che siano così fessi da crederci, perché non possono più assolutamente riuscirci. Non possono più credere in nulla! E’ una loro deformazione professionale. E’ una patologia che contraggono a volersi impicciare proprio di quella cosa che non può essere pensata, così che non riuscendoci si smarriscono, poi ci fanno l'abitudine, quindi si convincono che il pensiero sia la sola dimensione dell'essere, snobbano ogni ipotesi di realtà, e diventano quasi pazzi. Sono sempre tentati di dire: "Sono io! il vero artista. E' il mio intervento! che infonde valore all'opera. E' la significazione di me stesso che effettuo attraverso quella! che la trasla nell' empireo dell'effimero assoluto. E finché non la degno" si dicono   "l'opera, non esiste." Se lo dicono, se lo dicono; se lo dicono magari in bagno quando non li sente nessuno, ma se lo dicono. C'è poco da fare, è inevitabile, perché non conoscendo la funzione né l'oggetto né la fattura di ciò che considerano, giungono a reputare l'arte una specie di trastullo, e cercano conseguentemente d'imporre i loro giochetti. Gli serve un elaborato senza capo né coda o un aggeggio qualsiasi però fuori posto, poi cominciano a vaticinare: "E' altro! è' oltre! è' di là!" "Eh sì!" dico anch'io "è di là e come, però è generalmente altro dal di là del qui e adesso, che è quell'oltre a cui solamente l'opera sa riportarci."

Le opere d'arte sono sempre assai emozionanti ed è infrequente che i critici non le apprezzino, ma non sapendo riconoscere gli sgorbi incensano anche un mucchio di obbrobri, disgustano la maggior parte del pubblico, sviando così i pochi volenterosi sempre fuori dal nocciolo delle cose in se stesse per noi, la cui qualità è così lontana dal modo di conoscere e di supporsi dei critici, da risultare loro assolutamente invisibile. Non vedono l'oggetto dell'opera! Non ci riescono perché vengono irretiti da una prassi che li induce a scrutare dovunque un concetto, così che osservando una quercia in giardino si sforzano di rintracciarvi delle indicazioni stradali e, tanto si ostinano a corrompere la linfa del così com'è con la solita risciacquatura del così come lo pensiamo, da diventare il più pernicioso parassita di ogni espressione artistica. Che dire? Se le inquinassero di proposito gli si potrebbe riconoscere una capacità, invece sono banalmente limitati da un'incontrovertibile insufficienza, perché anche se riuscissero a capire che il pensiero è soltanto uno strumento, che la comprensione del nostro giardino passa di là da quello, e che le opere ci raccontano ciò che si trova per l'appunto dopo, non sapendo come si costruisce quel dopo, ancora non potrebbero distinguere la qualità del tramite e, con ciò non intendo affermare che le opere possono essere giudicate soltanto da chi le produce, ma più semplicemente che, la mancata conoscenza della loro organizzazione materiale, impedisce poi di stimarle nel contesto in cui la nostra specie si manifesta più tipicamente: non vedono il costruito! Il critico scova apparentamenti insospettabili, collega avvenimenti distanti, si picca di incassettare ogni cosa, poi infila una mano in tasca a cercare la caramella, e non la trova. La caramella è scivolata in una scucitura, è sprofondata in fondo alla fodera del cappotto, sottraendosi alla ricognizione di chi non possiede la mappa del proprio indumento. Gli accade o può facilmente succedergli, perché ignorano la fisionomia del costruito. Non lo considerano! Non lo valutano adeguatamente, tant'è che prendono degli abbagli grossi come città dove infatti, dovrebbe risultare chiaro a chiunque che il nostro spazio è zeppo di fabbricati e, chi non si accorge che i milioni di metri cubi di materiali sovrapposti sagomati incastrati cementati saldati e connessi in vario modo gli uni agli altri hanno una logica, e che quella logica manifesta un'estetica, e che l'estetica del costruito impronta la nostra percezione della plausibilità, poi non comprende che la plausibilità dell'opera, deve necessariamente passare attraverso una traduzione ottica della personalità del circostante. E' imperativo! E per non rendersi conto di questo, bisogna che i critici non sappiano neppure visualizzare la fisionomia dei ragionamenti sensati, perché in caso contrario noterebbero che il costruito non è il risultato di un pensiero di seconda classe, ma uno dei vertici di concretizzazione del nostro, e la scoperta, gli svelerebbe l'impotenza espressiva delle opere che non si mostrano pregevolmente allestite.

Chi costruisce possiede spesso soltanto le poche informazioni utili ad assemblare il proprio prodotto, però chi non ne realizza non vede il sapere indispensabile a quel tipo di compimento; di ciò che facciamo ed usiamo comprendiamo individualmente pochissimo, ma la massa dei fabbricati ha tanto carattere da marcare la percezione di tutti senza che quasi nessuno se ne accorga e, a chiunque abbia aperto un ombrello, le opere che non sfoggiano un bel costruito o una trattazione tecnicamente apprezzabile, paiono giustamente improbabili.

Modelliamo il paesaggio, viviamo in simbiosi coi manufatti, abitiamo la forma della nostra laboriosità e delle nostre conoscenze. E' il nostro super-naturale, perché pur non essendo naturale per nulla, lo sondiamo così bene da rapportarci conoscitivamente soprattutto con quello. Il costruito ci risulta più reale del naturale, perché dietro il rubinetto del lavandino di porcellana leggiamo anche il tubo zincato dentro il muro di mattoni rivestiti di intonaco, e la sua radiografabilità, ci fa sentire senzienti. E' quello, il nostro più grande sapere; tant'è che le domande del tipo chi siamo da dove veniamo e via di questo passo, sorgono a sconclusionarci di notte sotto le stelle, ma non nel corridoio di casa nostra. E' l'approfondita conoscenza del corridoio di casa! che ci permette di raggiungere un notevolissimo grado di integrazione con l'ambiente. Non ci eguagliano neppure i pigmei nella foresta! non ci riuscirebbero nemmeno se sapessero distinguere un milione di piante diverse! non potrebbero sentirsi partecipi del loro spazio come noi del nostro, perché noi che lo fabbrichiamo, non incontriamo mai nulla di sconosciuto. L'organizzazione di quello che è fatto ci è così manifesta che pur travisando ogni cosa riusciamo ad imperversare cognitivamente dovunque; padroneggiamo una sterminata quantità di informazioni, discriminiamo delle differenze infinitesimali, di ciò che vediamo sappiamo quasi sempre parecchio, e del costruito conosciamo immancabilmente di più. E' l'indagine che effettuiamo incessantemente sul circostante, che ci certifica esistenti, è lo stile della sua massa incommensurabile, che ci fornisce la misura della realtà e, ben oltre il possesso di qualsiasi grimaldello interpretativo della medesima, la cognizione che ne abbiamo e anche la certezza di starci, ci viene dal panino, dal tavolo, dalla sedia. La forma di ciò che è presente influenza quella del nostro pensiero e viceversa, siamo soliti specchiarci in ogni dove e saperci di rimbalzo, non conosciamo precisamente nulla, e ci percepiamo ugualmente bene, perché le cose ci obbligano, ci ubbidiscono, ci somigliano e ci piacciono. Ci intratteniamo con loro così incessantemente da non prestargli più caso, ma se vogliamo allestire una rappresentazione persuasiva, dobbiamo fare in modo che l'occhio vi possa riconoscere la stessa tensione logica che riscontriamo dappertutto; ed invece osservando ciò che viene solitamente magnificato dai critici, finisco quasi sempre per domandarmi:     "Ma queste scemenze, da che mondo provengono?" Mi offendono i sensi, mi disturbano fisicamente, le leggo come una negazione di quello che c'è e di quello che sono, tanto da non trovare la possibilità di immaginare mediazioni possibili, perché so che le cose mi dicono quello che sento, mentre all’opposto quando guardo le baggianate che circolano vedo che sono mute, che non rispecchiano la realtà di nessuno, e che servono soltanto a far blaterare i cialtroni che le commentano.

Mi scandalizzano! Le scempiaggini accozzate per non manifestare e per rendere impossibile ogni tipo di approccio, mi indignano al punto, che non riesco assolutamente a sopportarle. Aborrisco la spudoratezza di chi tenta spacciare per arte delle banali contravvenzioni di tutto, e trovo intollerabile che nello spazio dove abbiamo sempre indagato e prefigurato il nostro rapporto col mondo, si intrufolino delle rappresentazioni che figurano soltanto l'abdicazione a tentarne. Le detesto perché l'arrosto dice addentami e il pulsante schiacciami, mentre quelle non dicono niente. Le disprezzo perché le cose che ci circondano sono ben costruite invece quelle sono realizzativamente miserrime. Le spregio perché sono soltanto pensate, e pensate banalmente. Mi procurano una così profonda avversione, che per toglierle di mezzo sarei disposto a mangiarmi un critico tutti i giorni, perché quelli fagocitano un'arte inumana mentre avremmo bisogno di tenerci ben stretti a noi stessi, e snobbano il bel costruito che è invece indispensabile a corroborare il nostro sentimento più necessario. Quello fondamentale! quello di base su cui si alternano gli altri; quello così sempre vivo in chiunque da non essere solitamente mai notato; quello di cui non potremmo tollerare la mancanza, che ci fa sopportare le seccature: quello di esistere! Quello che nasce dall'intima corrispondenza col luogo che ci ospita, e che si nutre del godimento istintivo di ciò che vi si trova; quello che ci dà la misura del funzionante e l'emozione del meraviglioso, tanto da farci concepire l'idea del reale e del bello. Di questo, tratta l'opera d'arte, di noi e del nostro spazio. Ne tratta delucidando le sinergie che fondono cose spirito e pensiero in una rappresentazione del così com'è che appaga ed esemplifica la totalità dei nostri processi; per costruire un'immagine che ci coinvolga a quel modo bisogna postulare e risolvere delle equilibrazioni sofisticatissime, e quelle procedure, i critici d'arte non le capiscono. I critici impegnati in altri settori non so cosa sappiano, ma so per certo che i critici che si occupano di arti figurative, sistematicamente alla prova dei fatti, dimostrano di non capire sostanzialmente niente. Proprio niente! Niente di niente! Ce ne sono che stimano soltanto i prodotti conformi al loro sapere ed altri che si affidano alla prima impressione, ma anche questi assai meno ottusi dei primi, sono alla produzione artistica ugualmente nocivi, perché non sapendo cosa cercare finiscono per interessarsi soltanto alle trovate, e così facendo fomentano la vacuità. Si ritengono sensibili e sono soltanto informati; credono di possedere del fiuto e sono invece semplicemente scaltriti dal prodotto che frequentano. Se si appellano alla sensazione sbagliano, se si affidano al ragionamento sbagliano, e anche quando esprimono giustamente un plauso, è per sbaglio, perché l’insolito non è necessariamente pregevole, la sua incondizionata approvazione è capziosa, e per verificare le aberrazioni indotte da questa pratica basta fare una rapida carrellata di ciò che viene solitamente proposto, e si fa prestissimo, perché la pluralità dell'offerta è soltanto nominale, tant'è che le tipologie frequentate sono facilmente riconducibili a due: il niente, e lo schifo. I prodotti del primo filone risaltano per vuotezza, e quelli del secondo per repellenza, gli uni sconcertano e gli altri fanno vomitare, al ché si viene generalmente sospinti in un dedalo di supposizioni insolubili, o si resta orripilati da truciderie abominevoli. Non è, arte, è cronaca. E' un rendiconto della condizione cultural-esistenziale dei critici, e continuerò sempre a disinteressarmene.

 

*

 

 "Accidenti a me." dicevo "Non volevo più averci a che fare, invece ci sono ricascato. Mi sono distratto, ed eccomi d nuovo in trappola. Cosa me ne faccio? di queste maledette ceramiche. A chi dovrei venderle? Ci vogliono delle gallerie, serve un mercato, bisogna tessere delle relazioni, e non ne sono capace. Tutte le volte che sento parlare d'arte mi arrabbio, a chiedere un giudizio soffro, poi sbianco, e si vede. Sono negato! E più assessori, giornalisti, architetti, critici e galleristi conosco, più nemici mi faccio, per cui, è perfettamente inutile che mi impegni. Se almeno mi avessero avvertito, mi sarei regolato diversamente. Mi dissero che per trovare la mia espressione dovevo rivisitarle tutte, che sarebbe stato difficile e che avrei dovuto lavorare parecchio, ma che le opere non le distingueva praticamente nessuno, non me l'avevano detto. Non mi fu detto neppure che avrei dovuto corteggiare l'approvazione dell'imbecille di turno, che diamine! A saperlo, mi sarei condotto altrimenti, invece sono finito in questo vicolo cieco, ed è colpa mia, perché se avessi raccontato tutto ciò che mi piace non avrei fatto quello che ho fatto, o almeno non soltanto quello. Ho poco da protestare. La responsabilità dello stallo in cui mi trovo non è imputabile ad altri che a me stesso, perché se fossi stato fedele alle mie preferenze, avrei ottenuto tutt'altro riscontro. Se avessi liberamente assecondato la mia emozione della realtà, mi sarei divertito di più guadagnando forse anche qualcosa, invece, mi sono lasciato attirare al confronto con l'arte ufficiale, con l'arte delle sintesi estreme, con l'arte che si volge soprattutto all'ampliamento delle proprie possibilità linguistiche, e ho commesso un gravissimo errore. Pensare, che non mi piace nemmeno tanto; la ammiravo da ragazzo quando volevo sovvertire e distruggere, mentre adesso gli stravolgimenti mi scocciano, e le essenzializzazioni lo stesso. Ora, mi piacciono soltanto le opere fatte amorevolmente, preferibilmente con competenza, ma soprattutto molto amorevolmente. Mi piacciono certi strampalati quadretti da pizzeria, e fuori da quelle gradisco soltanto la pittura di chi pensa o pensava unicamente a dipingere. Mi piacciono i quadri con le nuvole, le barche, e il borgo con le piccole figure sgargianti. Quelli! mi piacciono. Mi incanto ad osservare come l'artista ha risolto la scena, lo immagino appartato a tradurla, e lo invidio." Li invidio da sempre, perché da sempre osservando il ritratto di certe donne bellissime facevo il confronto con i miei mozziconi, e pensavo: "Di donne bellissime è pieno il mondo, ma di mozziconi così belli non se ne sono mai visti, però, la pratica di esaltare le seduzioni femminine, mi pare più gratificante della mia di magnificare le immondizie. Non c'è paragone, è diventato tutt'altro mestiere, ormai, è un lavoraccio. E' ormai un lavoraccio schifoso perché bisogna chiedersi conto di tutto, mostrarsi originali per forza e obbligarsi continuamente alla prova, così che a furia di insistere ci si seppellisce dentro a se stessi, si prende troppo sul serio quel poco, si diventa essenziali, e mi sembra parziale, perché io mi sento assortito, e le essenzializzazioni mi annoiano. Che roba è, l'essenziale? Quell'essenziale lì, non è, essenziale! Soltanto le espressioni che fondono i nostri molti tipi di approccio, ci reintegrano nel nostro essenziale."

Certi artisti hanno saputo depurare il così com'è da qualsiasi pensiero, si sono spinti agli estremi limiti dell'essenzialità ed io li ammiro moltissimo, ma la loro arte non mi soddisfa, perché le cose così come sono per noi, sono così come sono per noi, mentre i prodotti dei geniacci qui sopra, sono formidabilmente essenziali. Troppo, essenziali! Perché l'opera non è soltanto uno strumento di ascesi, ma anche un luogo di rigenerazione collettiva, e per condurla ad espletare quel compito, bisogna fornire un appiglio allo spettatore. Bisogna offrirgli dei soggetti riconoscibili senza escludere nessuno dei modi in cui li rileviamo di solito, perché il pensiero è una componente importante dell'essere, e l'opera deve saperci coinvolgere a tutti i livelli.

 "Per far vedere la bellezza del bastone così com'è, bisogna mostrare anche il bastone corto." pensavo "Invece io non l'ho fatto, o non abbastanza. Per i critici non sarebbe stato mai troppo né poco, ma per chi avrebbe potuto acquistare le mie opere, non ho fatto abbastanza; per chi si affida impremeditatamente all'impulso del suo gradimento non ho fatto abbastanza, perché ho fatto l'artista. Sì, l'ho fatto! Mi sono macchiato di conformismo e me ne dolgo moltissimo. Ho sempre raccontato le cose che mi piacciono, però ho regolarmente scelto le più stravaganti; ho cercato assiduamente il così com'è, ma sono andato a raccoglierlo nei luoghi più impensabili. Ho sbagliato! C'è poco da fare."

 "Hai commesso la banalità più banale!" mi dicevo "Perché, non hai ritratto delle belle donne? Perché, non hai dipinto dei paesaggi?"

 "Uffa, perché perché! Perché l'hanno già fatto, ecco perché!"

 "L'hanno già fatto? Chi se ne frega! se l'hanno già fatto. Non è mica sempre obbligatorio scovare il nuovo, bisogna aggiornare anche il solito, e dopo tanto abbandono, direi che ce n'è proprio bisogno. Se ne hai voglia, lo puoi fare; se ti piace, lo devi! fare. Smettila! con queste cose così come sono, adesso che sai come sono, puoi mostrare di tutto. Adesso che sai tutto bello, devi imparare a goderne. Devi cominciare a infischiartene! dell'Arte. Devi astenerti! dal fare delle opere per gli esperti che non ci sono. Adesso, devi occuparti soltanto delle cose che ti piacciono, rappresentarle senza nessuna prevenzione, e cambiare anche tecnica. La scultura è faticosa, costosa, ingombrante: riappropriati dell'acquarello! e dal momento che abiti in un bel posto, comincia a ritrarne dei pezzi. C'è il molo, la spiaggia, i viali alberati; se vuoi, puoi dipingere anche il porto canale. Basta! con l'arte cosmopolita, prenditi una vacanza perpetua: dedicati alla pittura…en plein air."

 "Bravo! Hai detto bene, ma diventare semplici è tutt'altro che elementare, e anche se riuscissi ad accattivarmi il favore dei compaesani, non potrei comunque rifilargli le sculture che ho fatto, sicché, fino a quando non mi sarà possibile mostrare il senso che possiedono, a costo di insistere ancora nove anni e sei mesi, non mollo!"

 "E dunque, ingegnati! maledizione. Spicciati! inventa qualcosa: spiegati una volta per tutte!"

 "Ma nemmeno per sogno! Dovrei accollarmi anche questo? I critici, allora, a cosa dovrebbero servire? No, no, non ne ho mica voglia, anzi sì, mi piacerebbe moltissimo, ma le opere che intendo ancora produrre non me ne lasciano il tempo, e anche se ne avessi non saprei come usarlo. Figuriamoci! io che non scrivo nemmeno cartoline, dovrei adesso impegnarmi a redigere un testo? Per dire cosa, poi? Per fornire la mia supposizione dell'arte, stramaledire chi se ne immischia e snocciolare la solita litania degli artisti che danno di matto? No di certo! Gli azzardi mi attizzano, però non vedo gli estremi per rischiare il ridicolo. Ma chi me lo fa fare? Dovrei dimostrare l'eccellenza della mia produzione con una tecnica che non conosco? Sarebbe sconsiderato, e in aggiunta, per trattare delle cose così come sono, mi servirebbe anche una gran faccia tosta. Non faccio mica il guru! Cosa ne so, delle cose così come sono? Riesco forse a mostrarne qualcuna, ma non ne posso assolutamente parlare. E' un'arte veloce, quella; bisogna correre più rapidi del pensiero ed io sono lento; poi mi lascio trascinare alla disputa, smarrisco il sapore, tento di recuperarlo intellettualmente e non ci riesco, perché devo verificare prima tutto nell’opera, che non ho mai saputo spiegare.

 

*

 

Mi è stato possibile soltanto tredici mesi fa. Circa tredici dal 19/2/98 data di oggi in cui lo racconto. Era il gennaio del novantasette, e dopo tre anni passati a litigare con questo scritto, ritenendomi ormai sicuro di concluderlo, avevo ricominciato a dipingere ad acquarello ed ero felice, perché a più di due lustri dall'esecuzione dell'ultimo, soffrivo meno di quanto previsto. Credevo di dover affrontare una riabilitazione penosa, invece, pur avendo smarrito ogni destrezza, mi barcamenavo abbastanza bene. Non sapevo nemmeno più dove posare i pennelli! Però le recenti esperienze dovevano aver accresciuto le mie capacità, tanto che non ricordavo di aver mai letto il dipinto così lucidamente. Andavo in studio dopo cena, aggiustavo un soggetto sul tavolo, in due ore di lavoro racimolavo sempre qualcosa, e quando mi chiedevano "Come stai?", rispondevo "Bene, benissimo! ho ricominciato a dipingere, e vado come un razzo. Fammi visita, mi raccomando; vieni al più presto, che voglio mostrarti quello che faccio"

Una sera bussarono due amiche. Dissero "Ciao, disturbiamo?" Avevano portato del vino, le sigarette abbondavano, e ci accomodammo in un batter d'occhio. Il fumo si tagliava col coltello, e le lampade illuminavano una serie di acquerelli in cui avevo illustrato la dipartita di un ciclamino. I fogli protetti da buste di plastica pendevano ordinatamente dalla parete, le amiche li guardavano ed io le osservavo.

Mostrare le opere, mi piace. Se lo spettatore non cerca di millantare delle competenze, ascoltarlo, mi piace. Le visitatrici tenevano il bicchiere in una mano e la sigaretta nell'altra, avevano il sorriso beato e si chiacchierava piacevolmente. Non dovevamo sindacare delle gerarchie, per cui non c’era nessun tipo di tensione. Giocavamo! Loro formulavano i quesiti, io fornivo le soluzioni. Loro sparacchiavano tutto quello che gli passava per la testa, io lo stesso e mi divertivo. Ero insolitamente loquace e forse anche brillo, così alla domanda notoriamente più scabrosa tentai subito di dare risposta:

  "Cos'è?" disse una "Come funziona, a cosa serve?"

 "Vuoi sapere cos'è l'arte?"

  "Sì!"

Confidando nello scritto, azzardai un chiarimento veloce. Accennai di questo e di quello, zompai da un argomento all'altro, tanto che in cinque minuti congelai l'uditorio. A vedere le ragazze che strabuzzavano gli occhi, mi sfiduciai fin dentro alle ossa. Sentivo le parole uscirmi già fredde di bocca, e non sapevo come rimediare. Un disastro. Guardai sconsolatamente gli acquarelli, poi mi venne fortunatamente un'idea. "Alt! Fermi tutti!" gridai "Tornate subito indietro, che da qui non si passa, dimenticate quello che ho detto, che adesso ricomincio da capo. Tu!" e puntai l'indice contro la più pavida delle due: "Cosa hai detto tu, appena entrata?!" "Non saprei, non ricordo." "Mi ricordo io! Hai detto che ti piaceva quel ciclamino dipinto ed hai ribadito più volte la tua preferenza. L'hai detto, o non l'hai detto?!" "Sì, è vero, l'ho detto, e allora?" "Allora, non venirmi a raccontare che non ti sei accorta che si tratta di una pianta cadavere!" "Sì, che me ne sono accorta, e con questo?" "Con questo, adesso ti spiego cos'è un'opera d'arte, poi anche la sua utilità: ma come? Tu che dici di amare le piante, tu che gli parli, tu che ti svegli prestissimo per annaffiarle, capiti poi nel mio studio, e gradisci proprio quel morto? Renditi conto che è quasi incredibile,  perché  la  sua vista,  dovrebbe invece risultarti  spiacevole."

La ragazza si mostrava perplessa, dava segno di sentirsi anche in colpa, così ne approfittai. "Se la mattina scendendo in cortile ne trovi una ridotta in quello stato ti disperi per tutto il giorno, invece stasera ti è piaciuta addirittura moltissimo, perché? Perché‚ ti è successo? Sei diventata forse improvvisamente crudele? No, vero? E allora perché? Perché‚ ti è piaciuta? Te lo dico io! il perché: perché sono un artista! Ecco! il perché. Perché nonostante la momentanea povertà dei miei mezzi ho saputo mostrare l'armonia di quella verdura defunta, la quale risulta così suggestiva o almeno abbastanza per te, da obbligarti a fondare il giudizio soltanto su quello che    vedi,  e   non   su  ciò  che    ne   sai.    Io    volevo  evidenziare   la

               acquarello 35 x 50

bellezza che ho riconosciuto nella salma, e tu adesso ne sei consapevole, perché non ti ho passato una semplice informazione, ma la forma della mia stessa esperienza. Non ti ho mica imbambolata di chiacchiere. Tu non te ne sei accorta, ma ho fatto di meglio: ho zittito il tuo cane, sono andato nella tua aiuola, e ho piantato un fiore che non conoscevi, e da domani, scorgendone di appassiti il tuo dispiacere sarà quasi dolce. A questo, serve l'arte: serve a farci conoscere la bellezza dell'esistente; serve a farci superare la barriera del pensiero che ce lo guasta. E' semplice, vero? E adesso aprite bene le orecchie, che voglio raccontarvi cosa ho scoperto in questi anni di eremitaggio artistico: a noi, appare tutto magnifico ma, se non sei santo, non lo vedi, e se gli artisti non ve ne cucinassero delle porzioni, rimarreste quasi sempre a bocca asciutta!"

Parlando loro più o meno a quel modo,  sortii un notevole effetto, tant'è che una rideva a crepapelle, e l'altra si era dimenticata di chiudere la bocca. "Ah! glie l'ho detto!" pensai "Sta' volta, glie l'ho proprio detto. Ci sono finalmente riuscito, e non è certo un'impresa da poco" Ma la stordita si ristette quasi subito, si scosse, e mi volse un'occhiatina di riprovazione ammiccante.

"Regolare!" conclusi "Me l'aspettavo! Io l'ho spinta attraverso il muro, però lei preferisce far finta di nulla. Va bene, fa lo stesso, soprassediamo, la spiegazione è esemplare, e avrò modo di utilizzarla altrove."

 

*

 

 "E poi?" riflettevo "Anche se riuscissi a spiegarmi chiarissimamente, chi mi comprenderebbe? Per mandare a segno una spiegazione, bisogna essere in due, e le cose così come sono, non sono, per tutti! Ce ne saranno, da qualche parte, ci sarà anche qualcuno che sa distinguere le opere d'arte ma, vallo a scovare! No, no! far capire quello che ho fatto mi piacerebbe moltissimo, però mi accontenterei già soltanto di venderlo, e a un soluzionatore come me, dovrebbe riuscire abbastanza facile. Basta! è deciso! è quel che farò! Tant'è che da questo momento in poi, voglio impegnarmi esplicitamente a vantaggio della mia immagine, e per cominciare, compirò l'eccezionale impresa di costruire un'opera capace di piacere all'osservatore raffinato come a quello ignorante, anzi nemmeno, perché di pezzi del genere ne ho già fabbricati ventiquattro che non mi sono serviti a niente, per cui a ben pensarci, ritengo di dover inventare una cosa che, oltre a piacere a tutti, sappia anche convincerli della mia bravura. Devo agire diversamente! Di farlo senza farlo, ne ho fatti abbastanza. Voglio impegnarmi in tutt'altro senso. Trascurerò la danza, privilegerò il gesto atletico e picchierò il pugno sul tavolo. Lo calerò così grosso da sbigottire chiunque. Allestirò appositamente un marchingegno capace di mostrare soprattutto la mia forza. Architetterò un meccanismo che palesi le mie escogitazioni fino al punto di apparire geniale e, anche se non lo fossi, non mi farò scrupolo di darlo ad intendere. Alé, è deciso! Sfoggerò le mie formidabili capacità di costruttore, fabbricando un grande vaso smontabile."

 

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