Capitolo  11

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Era stabilito. Avevo detto: " Lo faccio ", e non avrei più potuto recedere, ma non, per puntiglio! No di certo! Ci mancherebbe! Se non cambiassi frequentemente proposito, diventerei il carnefice di me stesso, però la mia decisione era ormai irrevocabile, perché i vasi mi piacciono da impazzire, e in quel periodo stavo appunto cercando un pretesto per revocare la mia precedente deliberazione di evitarli. E l'avevo trovato, finalmente, perché frazionandoli avrei abbattuto i costi di trasporto che le gallerie non osavano accollarsi, e se fossi riuscito a scarrozzarli in automobile, sarei andato a collocarli sicuramente altrove.

Intendevo comporre dei moduli atti a permettere l'assemblaggio di molte fogge differenti, così da produrre un vaso smontabile che un ipotetico acquirente potesse modificare da sé. L'idea mi sembrava artisticamente aberrante, pacchianamente consumistica e demagogicamente democratica, quindi adeguata. "Buona idea!" mi dicevo e, a pensarla, andavo in brodo di giuggiole. Immaginavo di godere la disponibilità di una forma che non potevo ancora supporre, fantasticavo di estrarla dal bagagliaio dell'auto, ascoltavo i blocchi che tintinnavano urtandosi, poi li vedevo serrati in un pallone da calcio certamente no, in una piramide nemmeno, e in un cilindro neppure.

 "Questo vaso non dev'essere soltanto smontabile" valutavo "ma anche bello come gli altri che ho fatto; per cui i moduli devono apparire individualmente pregevoli, la loro forma deve consentirmi di produrre moltissime variazioni, e se non voglio scadere nel puzzle, devo fare in maniera che la scomponibilità non risulti fine a se stessa, ma funzionale al conseguimento di una qualità fondamentale. Varietà, varietà! Devo infondergli tantissima varietà! Devo comporre una superficie smontabile che si lasci differenziare come quelle a mosaico: mi serve un assortimento di tesseroni ad incastro."

Affrontai calcolatamente quell'opera, ma per puro interesse non le avrei dato mai inizio; fu invece la spossatezza, a decidermi, perché ero talmente stanco di tutto da non desiderare quasi più nulla, e quel proponimento azzardato, era l'unico che riuscisse ancora a tentarmi.

Martellai le ceramiche incompiute, sbarazzai il laboratorio, allestii un tavolo da disegno sul quale cominciai a progettare il vaso smontabile la cui fabbricazione si prospettò così lunga, che la vendita di un singolo pezzo non poteva remunerarmi del tempo impiegato, perciò scelsi di investirne dell'altro per realizzare degli stampi con cui eseguire delle copie, e dopo aver supposto l'impiego di varie tecniche replicative, stimai indispensabile adottare quella del colaggio che non conoscevo.

Pensavo al vaso la mattina in bicicletta, il pomeriggio nello studio, la sera sui tovaglioli dei bar, durante i pasti, a letto, sempre, e più lo pensavo, più sembrava complesso. La maggiore difficoltà era quella di immaginare delle combinazioni ad incastro, e per trovarne forzai le meningi a sondare le forme esclusivamente in rapporto alla loro possibilità di connettersi. Riuscii a modificare progressivamente il mio assetto, ma l'adeguamento bastava soltanto a rincorrere gl'intralci che venivano continuamente parandosi.

Da principio, non scovai nulla di utile, poi, dopo qualche settimana mi venne in  mente  un  tubo  che  avevo visto gettare sopra  una  catasta di profilati  della stessa 

specie, e ricordai come si fosse assestato spontaneamente fra gli altri di diametro diverso. "Fa al caso mio!" esclamai "Sopra un fascio di paralleli, un tubo aderisce longitudinalmente ai sottostanti almeno due volte; le sezioni tonde sono molto robuste, con le piccole posso mitigare gl'interstizi, e con tanti spezzoni differenti mi sarà possibile modificare i volumi e arricchire le superfici."

I segmenti di tubo sovrapposti davano luogo soltanto a degli accumuli lineari, avevo invece bisogno di comporre delle pareti curve, per cui schiacciai idealmente un'estremità dei cilindri; immaginai di integrarli con dei tronchi di cono, e cominciai ad ispezionare le loro potenzialità.

Con quei moduli contavo di pilotare qualsiasi formato, ma dopo averne disegnati parecchi mi convinsi di poter assemblare soltanto una sfera, o un cilindro. Non c'erano alternative: ogni modificazione di quei solidi regolari causava uno sconvolgimento dei rapporti di irraggiamento interno degli spicchi; per collegarli ne avrei dovuti fabbricare di appositi; l'adeguamento mi sarebbe costato un'enormità di lavoro, e non avrei comunque ottenuto la disponibilità che volevo. Così cercai ancora a lungo il frattale agognato, poi mi rassegnai: "Sfera, o cilindro?" "Sfera! ovviamente: non c'è paragone!"

Le sfere mi sono sempre piaciute moltissimo; ne pensavo già di molti metri di diametro, però in seguito mi accorsi che i tronchi di cono minimamente rastremati si associano in cerchio a grande distanza dal fulcro, mentre quelli che si restringono subito lo serrano rapidamente da presso. "Ma guarda che fregatura" sbottai "Chi se l'aspettava; i tronchi di cono, non sono, tutti uguali, e per connetterli, devo proporzionarli ad una sola dimensione. Non posso! ottenerle tutte; sarò costretto ad accontentarmi. Vorrà dire che la prima, avrà un diametro di centodieci centimetri."

Inizialmente cercai un sistema per concatenare i moduli, ma la loro fragile sostanza e l'impossibilità di prevedere precisamente dove sarebbero venuti in contatto, mi impedì di saldarli. Non conoscendo neppure quale tasso di deformazione avrebbe indotto lo stampaggio, preferii ipotizzare una soluzione costruttiva che tollerasse qualche margine di inesattezza e, a quello scopo, stimando che gli anelli avrebbero arginato lo slittamento dei tronchi di cono fornendo contemporaneamente un cospicuo irrobustimento strutturale, postulai delle cordolature circolari. Stabilii che l'intervallo fra i peripli doveva contenere i cordoli di almeno tre pezzi adiacenti, però non ero per nulla sicuro della mia scelta, perché paventavo che il vincolo avrebbe sfalsato i moduli a diverse distanze dal fulcro, compromettendo probabilmente il montaggio. Oltre a ciò, pensando al rilievo degli anelli presagivo alcuni problemi di replicazione. Infatti, temevo di incontrare non poche difficoltà, perché della replicazione a colaggio sapevo soltanto che lo stampo di scagliola andava riempito di creta liquida, che la malta in eccesso doveva essere riversata fuori dopo un po', e che in seguito si doveva estrarre il positivo di argilla trattenuto dall'assorbenza del gesso e, appunto rappresentandomi quest'ultimo adempimento, mi domandavo: "Prima di procedere all'estrazione del pezzo, quanto bisogna attendere? perché se mi spiccio, riesco forse a salvarlo, ma se mi trovo costretto ad aspettare che assodi, quello si restringe, i cordoli gli impediranno di scorrere, e si romperà."

Per decidere l'avvio di un oggetto così complicato, avrei prima dovuto anticipare un'attenta previsione della sua fattibilità, però non conoscendo il colaggio non potevo riuscirci, per cui fui obbligato ad innalzare il livello della mia esposizione personale. "Te la senti?" mi chiedevo continuamente in quei giorni "Vuoi tentare un simile azzardo proprio adesso che sei così stanco? E se poi ci tocca gettare la spugna, come la mettiamo?"

Considerando i 110 centimetri di diametro del vaso, la necessità di ricavare uno spazio vuoto al suo interno, il tipo di ancoraggio che avevo previsto per i tronchi di cono e la postura obliqua che avrebbero assunto sopra e sotto, valutai che per poterli sovrapporre abbastanza solidamente dovevo dargli una lunghezza laterale di quindici centimetri, e che in quello spazio avrei sbalzato sei anelli; poi, dal momento che sei anelli fornivano un appiglio più che abbondante, scelsi per loro un profilo inclinato che ne diminuiva la presa a vantaggio di un più facile disimpegno in essiccazione e, per conoscere la necessaria affusolatura dei tronchi di cono, ai centodieci centimetri di larghezza del vaso tolsi due volte lo spessore dei tesselli da quindici, ottenendo gli ottanta del vano contenitore. In seguito divisi il centodieci per ottanta volte ricavando un 1,375 proporzionale, con cui frazionando il diametro massimo di ogni modulo, trovavo la misura della loro sezione stretta.

Il vaso cominciava ad assumere una fisionomia definita, nella quale cercavo di fondare i presupposti per poter successivamente sviluppare la massima varietà. Fantasticavo centinaia di rilievi ornamentali da sbalzare sulla sezione visibile esterna dei coni, però decisi intanto di accontentarmi del fregio più affine alla sfera e, dovendo necessariamente ricorrere alla collaborazione di un tornitore, considerando le prerogative del suo strumento, stabilii di commissionargli dei prototipi muniti di decorazioni tonde.

La progettazione sembrava a buon punto, ma all'improvviso mi venne il sospetto che la struttura non si reggesse, perché dopo essermela così lungamente rigirata in testa, vedevo la mia apoteosi rovinare per terra.

La forma appariva solida, ma non distinguevo cosa potesse  opporsi   al   suo  smembramento, quindi,   per risolvere  il  dubbio,  fabbricai  un

modellino di argilla. Sagomai un piedistallo a tronco di cono dilatato, gliene accatastai dei più snelli all'intorno, la corona crebbe, si allargò, cadde. Riprovai, ricadde. C'era poco da insistere: cadeva. Quando il peso dei moduli preponderava fuori dal limite esterno delle fondamenta, era inevitabile la frana, perché i cordoli non potevano impedirla, e le decorazioni sporgenti l'avrebbero anticipata.

Agguantai subito la piattaforma, vi affondai l'estremità di un filo di cotone, poi lo svolsi circolarmente a seguire l'accumulo spiraleggiante dei moduli miniaturizzati fino a compattare la boccia. "Oplà!" esclamai " Basta  un  filo!   Nel  vaso  reale   adoprerò   un  cordino,  per  il

quale predisporrò un passaggio distanziando due anelli." La soluzione mi sembrava raffazzonata, ma la simulazione prospettava un vaso bellissimo.

Disegnai cinque tronchi di cono di diametro diverso, ad ognuno proporzionai in capo una palla, poi per ottimizzare lo stivaggio nel forno stabilii una dimensione massima di venti centimetri per tutti. Per rispettare la misura rincagnai i globi grossi ed estroflessi i piccoli; per evitare che venissero fra loro in contatto li confinai dentro la proiezione conica al netto dei cordoli; distanziai questi ultimi di due centimetri e mezzo; detti loro un rilievo di uno, e dopo aver ultimato i prospetti, mi accorsi di non aver considerato quel centimetro che andava computato invece al 50%. Esitavo: "Quali altri sbagli avrò fatto? Cosa avrò ancora scordato?" Tergiversai ancora un po’, e diedi inizio all’impresa.

Comperai dei blocchi di legno compatto provvedendo a spartirli in coppie di cotiledoni uguali congiunte da un foglio di carta incollata; le affidai al tornitore; a consegna avvenuta stuccai e levigai finemente le forme; rimarcai l'intercapedine cartacea giustapposta per segnalare la mezzeria; applicai delle protesi con funzione di imbuto per facilitare il colaggio; impermeabilizzai ogni pezzo con molte mani di gommalacca; li spazzolai di cera e cominciai a fabbricare gli stampi.

Spinsi il primo modello dentro a un parallelepipedo di creta cruda (A), livellai la malta fino  a  fargli   lambire  la  demarcazione  della  carta,  impressi  degli  avvallamenti  a coppa sulla superficie dell'argilla, recintai il blocco con quattro

tavole di compensato impermeabilizzato che serrai con robusti morsetti, pennellai di grasso l'interno della cassetta e tutto ciò che vi si trovava, vi colai dentro della scagliola liquida, poi martellai ripetutamente il piano di lavoro per purgare il gesso dalle bolle d'aria. Il gesso tirava quasi subito, diventava fumante, e dopo mezz'ora potevo smontare le paratie di contenimento. Successivamente rovesciavo la gettata, toglievo la creta, lasciavo il tronco di cono dentro al blocco di gesso addensato, gli ricomponevo la scatola attorno (B), ungevo tutto, versavo la scagliola necessaria  a formare la seconda     valva (C),      aspettavo     mezz'ora,    staccavo e numeravo la prima, poi gettavo la terza sulla

seconda, la quarta sulla terza, così proseguendo fino a farne diciotto, con cui poter assemblare i nove stampi che avevo previsto per ognuno dei quattro prototipi. 5 x 18 = 90: ben 90 mezzi stampi di scagliola, e la scagliola, è l'unico materiale che non mi piaccia; anzi peggio, la detesto! Da asciutta si spande dappertutto, da liquida schizza dovunque, si rapprende subito, obbliga a lavorare in fretta, costringe a scrostare continuamente secchi e cazzuole, squama la pelle, brucia i capelli, mette a dura prova i nervi di chi l'adopera, e in più, dovevo anche liberarla dal grasso. Forse feci male ad usarlo però non seppi scovare di meglio, e rimuoverlo fu davvero problematico: tentai con la soda caustica, ma era un esercizio rischioso, gli acidi si dimostrarono inefficaci, l'acqua ossigenata a 130 volumi lo stesso, e alla fine mi rassegnai a sopportare i miasmi del diluente alla nitro.

Era inverno, nel mio studio faceva un gran freddo, stavo sempre impillaccherato di grasso e scagliola, e i mezzi stampi non si asciugavano mai. Non potendo verificare la fattibilità dei tronchi di cono,  temevo di lavorare a vuoto; poi finalmente i termosifoni di casa essiccarono le matrici che risultarono ancora leggermente untuose, così fui costretto a raschiarle tutte. L'incombenza mi spiacque, ma i colaggi riuscirono. Riuscivano perché il loro minimo restringimento rendeva tollerabile una breve sosta nello stampo, e perché i gusci sedimentati per disidratazione diventavano abbastanza duri da poter essere estratti quasi subito; riuscivano perché non rimpicciolivano del 15% come avevo supposto, ma soltanto del 4%.

Pensavo si sarebbero rotti, ritenevo infondata la mia previsione, avevo torto, avevo ragione, la sorte mi favorì, mi illusi di poterne approfittare, così sprecai due settimane di lavoro: fabbricai prima il modello e poi lo stampo per un basamento unico di malta pirofila pressata a mano, che restringendosi come ben sapevo del 10%, si sottrasse alla coincidenza dei positivi di creta a colaggio che diminuivano invece del 4%.

Ero certo, di commettere uno sbaglio, ma l'approfondimento della previsione mi andava prospettando una smodata crescita del da farsi, e non seppi resistere alla tentazione di svicolare in quel piedistallo monoblocco.

 "Maledetto somaro!" dissi "Se già conoscevi il diverso comportamento delle due argille, perché hai cercato di farle incontrare? Non si tratta mica qui di comporre una fanfaronata qualsiasi, questo, è il tuo passaporto, la tua tesi di laurea, il tuo conto in banca. Questo, è un ordigno deputato a moltiplicare l'impatto visivo del costruito, per cui devi fargli raggiungere delle corrispondenze materiali perfette, bandire ogni incongruenza estetica, e non combinare più fesserie, perché se ne commetti un'altra del genere, non ne veniamo fuori. Non è più! una scultura. E' un incendio, un tifone, un terremoto. E da adesso in poi anche a costo di andare in pezzi, intraprenderai tutto quello che serve indipendentemente da come ti senti."

Avevo costruito un basamento sbagliatissimo, ma l'osservazione dei suoi innumerevoli difetti mi consentiva almeno di riconoscere delle necessità che non avrei saputo forse preventivare. In primo luogo non dovevo spiccare il globo da una base piccola, perché gli avrebbe fornito un supporto troppo strapiombante, e dal momento che mi trovavo obbligato a fabbricare un piedistallo ampio, dato che un unico grande elemento si sarebbe dimostrato fragile, difficile da cuocere e da trasportare, e soprattutto in contrasto con la scomponibilità del complesso, decisi che per la costruzione non soltanto del sostegno ma anche delle porzioni che restavano da aggiungere, avrei sempre rispettato lo spirito della cosa risolvendo tutte le sue parti con nuove serie di moduli ad incastro, da realizzarsi rigorosamente a colaggio!

La risoluzione allontanò l'obbiettivo, però mi consentì di programmare il suo raggiungimento, così all’inizio cercai di immaginare una bella base, perché la necessità di ingrandirla mi obbligava a corroborare il suo aspetto, per cui la spartii in otto spicchi, poi giudicandoli voluminosi decisi di dimezzarli orizzontalmente per poterli sovrapporre sfalsati su due livelli, dopodiché immaginai un incastro esteticamente idoneo che impedisse qualsiasi slittamento alle due corone fondanti, per le quali programmai una incernieratura laterale, e tante altre cose.

L'allenamento mi consentiva ormai di immaginare molte soluzioni, la vistosità delle palle mi permetteva di arrangiare più semplicemente le aggiunte, ma la loro progettazione fu ugualmente problematica, perché quasi tutti i nuovi moduli dovevano poter sopportare la pressione dei soprastanti, e avere una forma che mi fosse possibile tradurre millimetricamente in un prototipo disposto a prestarsi ad essere ricalcato da uno stampo composto di pochi elementi idonei alla riproduzione a colaggio; per cui, ad esempio, all'interno dei pezzi bisognava architettare delle cavità tutte spigoli e volute, che gli improntassero le architravi per reggersi.

Le procedure che ho fin qui condensato possono apparire complesse, ma la loro messa in pratica lo era molto di più e, per non interrompere il corso del lavoro, ero obbligato a decidere alla svelta.

Per fabbricare i moduli del basamento allestii due casse di compensato le cui misure interne corrispondevano ai volumi che intendevo realizzare, e dopo aver versato la scagliola in quei contenitori, intanto che la gettata asciugava, continuai le verifiche sui tronchi di cono.

I tronchi di cono uscivano intatti dal forno, ma non si lasciavano sempre smaltare, perché la creta da colaggio scuoceva facilmente, cristallizzava, perdeva assorbenza, così lo smalto non vi faceva presa; allora, scelsi subito di colorare i pezzi con la più veloce tecnica dell'ingobbio (colorazione della creta cruda secca che necessita di una sola cottura), e per procedere ancora più in fretta approntai un mastello pieno di vetrina (invetriata di facile utilizzo) dentro la quale immergevo spicciativamente gli stampati. Stabilii di eseguire la tinteggiatura in funzione della necessità di fotografare il vaso ultimato, e allo scopo diedi fondo ai campioncini di pigmento pastello che snobbavo da sempre. La varietà corroborava le tinte scialbe, i pezzi risultavano coloristicamente compatibili, e coi primi collaudai il montaggio. Ci stavano! Accostandoli sopra ad un piano ottenevo la corona del diametro previsto; aggiungendone altri vedevo delinearsi la cupola; però dopo un po' cominciai a domandarmi quanti elementi sarebbero occorsi alla sua definizione, perché l'apporto dei quaranta che colavo ogni due giorni, l'accrescevano di pochissimo.

 "Come si calcola, la superficie della sfera?" Lo domandavo a tutti, ma non lo sapeva nessuno, poi scartabellai finalmente quel 4 x 3,14 x raggio al quadrato, con il quale mi fu possibile scoprire che i 110 centimetri di diametro del mio pallone ne avrebbero sviluppati ben 37994 di superficie esterna, e dividendo quella per i 49,71 centimetri quadrati occupati mediamente da ognuno dei tronchi che avevo fatto, ottenni un 764 indicativo del numero dei coni necessari a completare il globo; quindi, valutando approssimativamente lo spazio disimpegnato dagl'interstizi, dall'imboccatura e dalla base del vaso, stimai di dover fabbricare almeno 650 bussolotti per ogni opera.

 "650?! Ma siamo matti?! Seicentocinquanta pezzi da colare, estrarre, eventualmente riparare, riporre, carteggiare, verniciare, riporre ancora, stivare nel forno e accompagnare a cottura? E' impensabile!" decretai "La loro esecuzione comporterebbe un forte aggravio dei costi, e l'eccessivo affollamento deprimerebbe l'effetto decorativo. Non ho scelta: devo aggiungere tre tronchi di cono più grossi!"

Comperai il legno, tornai dal tornitore, movimentai altri quattro quintali di scagliola, che non era precisamente scagliola ma un gesso molto più duro, e dopo aver fabbricato le 54 conchiglie dei 27 stampi per i tre nuovi modelli, fui ben felice di tornare ai due blocchi del basamento, che durante la pausa erano diventati asciuttissimi.

Prima perfezionai la squadratura dei volumi (A), poi li precisai con l'ausilio di alcune sagome di carta; in un terzo tempo identificai quattro operazioni da compiere separatamente, e per fare in modo che la risoluzione di una di esse non diminuisse l'agibilità delle restanti, realizzai innanzitutto l'incastro orizzontale che mi permetteva di collegare i due elementi, e di osservarli sovrapposti.

Di solito eseguo soltanto quello che invento, ma per incatenare le due corone di base copiai la ricopertura di un tetto (B); lo scelsi perché le sue ondulazioni accrescevano la resistenza delle superfici; producevano una fenditura adeguata alla fisionomia dell'assieme; impedivano ai moduli qualsiasi slittamento, e li bloccavano    così    dolcemente   da   permettere   loro   di     assorbire   le   inevitabili

imperfezioni. Quella foggia aveva il solo difetto di essere nota, però dentro al vaso risultava invisibile: sicché!

Per sagomare le forme graffivo i loro prospetti sulle facciate perimetrali dei blocchi, poi sgrezzavo le masse con lo scalpello, rifilavo delle bisettrici con la raspa, e per far combaciare le superfici agitate ne tinteggiavo una, vi pressavo sopra l'adiacente, verificavo dove il gesso si era sporcato di colore o il colore di gesso, grattavo via qualche decimo di millimetro in quei punti, procedendo di seguito alle sottrazioni necessarie. Per evitare successive rotture, sfioravo l'incastro coi polpastrelli ad individuare le protuberanze indesiderate. Le soffregavo con la carta vetrata, indirizzavo il contatto nelle  zone  strutturalmente   più   robuste,  e  cercavo  di

prevedere quali sollecitazioni potevano essere indotte da un montaggio lievemente sfalsato, da un terreno ondulato, o da un bambinaccio che forzava il pezzo scalandolo.

Dato che sulle corone di base avrebbe gravato il peso di tutto il complesso, ritenni di dover curare la loro giunzione, e a quel fine, discesi immaginativamente al loro interno   a    stiracchiarmici,   fino    a    quando   le   due   cremagliere  unite  non  mi

trasmisero una confortevole sensazione di corrispondenza. Poi sulla corona superiore livellai in alto una striscia pianeggiante (C) sulla quale intendevo poggiare una botte per contenere il terriccio, e sul frontespizio già opportunamente inclinato di ognuna delle otto fette della ciambella suddetta, ricavai tre longheroni d'appiglio che scalinai con uno scalpello provandovi e riprovandovi la coincidenza di tre degli otto moduli di legno disponibili. Li sporcavo di colore, li pressavo ruotandoli, poi ne raschiavo le orme fino a far scendere i cordoli a sfiorare il greto dei solchi che separavano i montanti, dopo di che, cominciai a considerare l'estetica del basamento. Avevo già definito il  basamento con  numerosi disegni,  però, conoscendo

i vantaggi della verifica diretta, mi ero premurato di impaginare la sequenza operativa in modo da poter risolvere gli equilibri estetici soltanto in un secondo momento, e in seguito mi riuscì effettivamente piuttosto facile, perché potendo osservare di quanto spiovevano le palle a nascondere la corona superiore,  non  trovai  difficoltà a pareggiargli otticamente quella di sotto, rientrando il suo esubero

nella battuta a contatto col terreno. Successivamente mi occupai della demarcazione dell'incastro, e ne valorizzai l'andamento curvilineo bombando le porzioni delimitate da margini convessi a preponderare sulle concave.

Considerando il notevole rilievo delle palle avrei voluto lievitare ancor più il piedistallo, ma gonfiandolo avrei diminuito la sua resistenza al carico, e il computo dei quintali di creta che stavo consumando per le repliche mi consigliava prudenza. "Tanto," pensai  "è ormai solo questione  di  gusti, perché  l'organizzazione  di quest'oggetto mostra già  più  armonie  di  quelle  che

riscontriamo di solito, e una base più grassa o più secca, farebbe una differenza che non conta."

Completai i prototipi di base con l'aggiunta di chiavi laterali, impermeabilizzai con la gomma lacca, fabbricai tre stampi di quattro pezzi per ognuno dei due moduli, poi ne ragionai un altro per un contenitore cilindrico interno, la cui costruzione mi era parsa indispensabile dopo aver scoperto la necessità di intrufolare un filo nel vaso, perché quest'ultimo che già richiedeva un rinforzo per reggersi, non poteva certamente trattenere dei quintali di terra.

All'inizio volevo risolvere con un tino di plastica, ma pensai in seguito ch'era un ripiego miserrimo, che l'imprevedibile accumulazione dei tronchi di cono non mi consentiva di preventivare la maniera di adeguarvi sopra un'imboccatura, mentre invece un silos di moduli avrebbe fornito a quella un comodo appoggio, e ciò considerato, mi impegnai alla costruzione di una botte.

Stimando che un calcolo non avrebbe potuto predirmi con esattezza il confine fra i tronchetti e la bocca, per poter poi collocare quest'ultima alla quota opportuna, decisi che i cerchi di botte su cui intendevo posarla dovevano essere più alti possibile perché volevo colarne meno che potevo, e contemporaneamente abbastanza bassi da permettermi una regolazione del loro livello; così ne feci da otto centimetri che si chiudevano in quattro a circoscrivere un pozzo da quaranta di diametro, e munii ogni singolo quarto di due sporgenze atte a sorreggere un piatto diviso a metà, da collocare all'interno del tino a limitare il quantitativo di terra.

Ogni positivo di ceramica andava colato, scolato, sformato e stagionato in maniera adeguata, in tutti facevo dei fori per lo scolo dell'acqua piovana, immancabilmente dovevo attrezzare delle pinze speciali per immergerli e salparli dalla vetrina, e dopo aver immagazzinato i pezzi sufficienti tentai un montaggio completo.

Al centro dello studio sistemai una piattaforma di legno, vi assemblai sopra i sedici blocchi della corona di base, vi incastrai la prima fila di tronchi di cono, poi accompagnai l'accumulo dei successivi con una sagola di nailon. Poggiavo un tronchetto medio, quindi un altro più voluminoso contornato da alcuni piccoli, e il cordino restava lento oppure andava in trazione fra due moduli alti, così gli aggiuntivi gli penzolavano addosso, e il peso di quelli sollevava i sottostanti. Allora tenni lo spago basso a girare più volte attorno al collo dei pezzi, ma senza risultato, perché il cavo scorreva sui fusti rastremati, scivolava in una circonferenza minore allentandosi, e se lo avvinghiavo subito all'attaccatura dei cordoli, la sua tensione impediva ai seguenti di ricalcare le depressioni.

Il filo risultava sempre lento o forzato, e invece di serrare le parti le sobillava a dividersi. Se lo idealizzavo nel vaso compiuto potevo ancora pensarlo idoneo, ma se mi chiedevo come portarcelo non trovavo risposta. ero preoccupato. Per non cedere allo sconforto andai al mare a fare un bagno.

Il giorno appresso trapanai due fori sul declivio scalinato di ognuno degli otto moduli della corona superiore di base, ne feci uscire sedici cordini che tesai verticalmente ad intercettare le circonvoluzioni del cavo principale, ma l'espediente non dette buon esito perché l'accumularsi dei pesi allentava il nailon che cedendo comprometteva la posa. I tronchi di cono si accavallavano in un pagnottone smisurato,  quelli  della  prima  fila  facevano presa soltanto con l'anello più  grande,

e la dilatazione destabilizzava il complesso. "Adesso basta!" dissi "E' inutile, che insista! Il nailon, non ce la fa!" Smobilitai tutto, sciolsi i sedici cordini, li sostituii con trentadue cavetti d'acciaio, impugnai le pinze, cucii strettamente i multipli fino alla massima circonferenza del vaso, poi aggiunsi i restanti poggiandoli a secco.

L'assieme, risultò solidissimo; però i tronchi più alti fortemente inclinati minacciavano di cadere dentro alla botte, mentre il cerchio superiore di quella non essendo trattenuto al di sopra da un analogo corrispettivo, tendeva a spalancarsi all'esterno. Così per    risolvere   fabbricai    un  ingresso    circolare   in quattro   spicchi   con  sezione a goccia, che al

di sotto, bloccava il cilindro contenitore riproponendogli il suo medesimo tipo di incastro, e di lato, arginava i tronchi facendosene contemporaneamente serrare.

 

*

 

Dopo otto mesi di apnea, ero al culmine dell'esasperazione. Dopo otto mesi di lavoro protratto senza mai un giorno di sosta non ne potevo più, e alla posa del quattrocentocinquantasettesimo ultimo spicchio, mi venne voglia di rompere tutto. Non  mi   convinceva!   Quel   vaso   non  mi   convinceva   abbastanza,   o   forse   mi

sconcertava l'ipnoticità delle sfere che si eclissavano ai bordi, perché a quelle pensavo di dover aggiungere molti altri rilievi, invece gli otto sembravano ottomila, risultando irresistibilmente attrattivi. Era imbarazzante! Il giocattolone preponderava senza ritegno, e i miei sedani blu, una stufa a pagoda alta due metri, un maglione a mosaico e vari altri pannelli, al suo confronto sembravano fiacchi.

E' inammissibile." dicevo "Questo, non può essere, migliore di quelli: E’ soltanto più rumoroso. A vederlo si rimane stregati, ma non dice niente. Non svela, la bellezza delle cose così come sono; non muta, l'assetto di chi lo guarda; forse ne modifica il gusto e almeno con me ci riesce,   però   non  promuove  nessuna   ulteriore

  centimetri 115 x125

lettura della realtà, ma vi si accampa in virtù della sua potenza. E' semplicemente vistoso. E' così vistoso da imporsi sorprendentemente effettivo, ma non è, un'opera d'arte. E' un coso! E' un coso che si mostra moltissimo, perché si mostra completamente; è sfrontato, sfacciato, lo direi quasi decorativamente smodato, ogni momento mi aspetto di provare ribrezzo, invece sono cinque anni che lo guardo, e continua a piacermi. Non c'è niente da fare: si esibisce senza ritegno, pare sempre sul punto di scadere nel pornografico, e invece tiene; ha un'austerità matematica, e tiene; non sarà un'opera d'arte, ma è pur sempre un capolavoro: è come il maggiolino Volkswagen!"

Come previsto, piacque. Piace quasi a tutti, piace da stordire; non può, non piacere: si spiega da solo. Le argomentazioni sono scandite dal frazionamento dei moduli, e il loro assemblarsi evidenzia la logicità del discorso, non è molto vario, ma si mostra così chiaramente da sembrarlo.

"Che vaso fantastico" si complimentano gli amici "Di così belli, non ne avevi mai fatti! Come ti è saltato in mente? "L'ho premeditato" rispondo "L'ho fabbricato perché le opere d'arte non le distingue nessuno, e con questo vaso ho voluto dimostrare almeno la mia bravura." La spacconata li sorprende, mi sbirciano esterrefatti ed io arrossisco un po'. Pazienza! Quando ci vuole, ci vuole e, a coronamento di un'operazione del genere, qualche sbruffonata, è indispensabile.

 

*

 

Il vaso finì per piacermi moltissimo, però non ne ero del tutto soddisfatto, perché i suoi quattro quintali di pezzi si lasciavano movimentare agevolmente, ma il loro assemblaggio non si prestava alla manualità di chiunque. Bisogna infatti accomodare i coni in una sfera regolare, stringere i cavetti senza troncarli, non lasciare vuoti troppo grossi, ed è facile; tuttavia si deve considerare più di un aspetto allo stesso tempo, e quell'abilità non può essere immediatamente trasmessa con delle istruzioni. Servono alcune ore  di pratica! Però quelle poche rendono industrialmente inappetibile il prodotto, e non avevo nessuna intenzione di sbattermi in giro a montarlo.

Invece di sfinirmi completamente, l'allestimento mi aveva esaltato. "Sono una bestiaccia" dicevo "Sono una roccia, un'incudine, uno scoglio; sono praticamente indistruttibile, e voglio subito fabbricare uno smontabile mutante che sia anche facile da ricomporre."

Lo pensavo da otto mesi, e sapevo già come fare.

 

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