Capitolo  7

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Desideravo possedere una scultura di vetro, e pensai di incrostarlo su un'intelaiatura di spranga. Fantasticai una massa traslucida venata dal filo di ferro, cominciai ad intrecciarne una sfera, la  palla era grande, il ferro risultava piuttosto duro, serviva una maglia stretta, il ricamo pareva interminabile, ma intanto che infittivo i punti pregustavo le trasparenze del bozzolo. "Chissà come viene bene" dicevo, e mentre gli incastravo le schegge, vagheggiavo le produzioni seguenti. Succede così: capita di considerare dei materiali, li si concepisce in un assieme, li si accompagna con l'immaginazione ed è un piacere grande, perché le loro qualità alimentano la fantasia, e ci si spinge lontano, però quella volta, mi fermai molto prima del solito: "Ma chi solleva chi?" mi chiesi "A sette ottocento gradi, qui, si squaglia tutto!" Riposta la sfera, e cercai qualcos'altro.

 

*

 

La spranga mi dava dei grossi problemi perché, anche se l'incappottavo di smalto, a guardarla costringeva a pensare: "Toh! un filo di spranga." Ci si inciampava per forza. Dalla stizza le tirai una lamella di creta, la maggior parte di quella trapassò sul pavimento, ma la porzione impigliata sbandierò dei festoni interessanti. Lanciando altre lamelle mi accorsi di poter ottenere una bella superficie, supposi che la crosta restringendosi si sarebbe poi sbriciolata sul ferro, invece spalancò soltanto delle crepe. L'argilla avvinghiava l'armatura scomponendosi in placche, e la trama degl'interstizi era assai conseguente: gli strati grossi davano luogo a zolle grandi, quelli sottili producevano delle frittelle più piccole, mostravano tutte dei formati bizzarri, e le fessure marcavano i rilievi e gli avvallamenti.

Le lamelle sfumavano il passaggio dalla creta al filo metallico, ne irrigidivano le spire, ne alleviavano la magrezza e mi facevano praticamente da jolly. Dopo  alcune prove, decisi di giocarmi la sfera intrecciata.

Avvolgendo delle spranghe ad un piolo fabbricai delle molle, le tesi sul globo a mimetizzare l'ordito a quadretti, affettai le scaglie con un cavetto sottile, le schiaffeggiai sulla palla, aspettai che seccasse, cucinai, verniciai e infornai ancora.

La forma appariva fiaccata dal calore che le aveva sottratto il sostegno del ferro, lasciandola poggiare sui medaglioni di creta. La palla si era leggermente schiacciata, ma aveva resistito. Durante la cottura, le placche che indurivano progressivamente erano riuscite a compensare il cedimento del metallo arroventato, la dilatazione dei cavi non aveva prodotto altre sedole, per cui, dopo il raffreddamento, la struttura risultava abbastanza solida.

Ne feci subito un'altra con più telaio più ricci e più argilla. Restrinsi le maglie, fissai tutti i punti, dissimulai le molle incrociandone molte, le acconciai vaporose in alto,   compattai  un  grosso  strato  di  creta  sotto,   la spiumacciai  sopra,    infornai,

verniciai, e ricucinai la ceramica che risultò avvincente, perché le zolle che salivano ad infrangersi sempre più piccole sulle volute dei ricci, le grosse crepe ramificate, le pellicine, i buchi slabbrati e le tante cose coinvolte nel crescendo, portavano la sfera ad un super-effetto di presenza, che quella tipologia elementare solitamente non possiede. La grafia delle ombre intrappolate negli spacchi mostrava una nettezza vellutata che non poteva essere ottenuta con nessun'altra specie di segno, e l'imprevedibile plausibilità con cui le tracce affioravano ad illustrare le tensioni della scorza erano talmente inimmaginabili,  che mi  sembrava  di  non  aver  mai   osservato   niente    di   simile,    perché  non

                centimetri 52 x 55

conoscevo nient'altro, che sapesse mostrare un vuoto così netto.

Il vuoto circoscritto dalla palla era più percepibile di quello contenuto dai vasi, perché quello dei vasi si esponeva al via vai dei pensieri che lo rimescolano all'infinitezza sfuggente, invece la palla, riusciva a proteggere il proprio.

Se si camminava attorno al globo o se guardandolo si reclinava la testa, le crepe frammentavano la percezione della luce che filtrava all' interno, e la forma sembrava animarsi. Il vano ficcanasato dagli spacchi si mostrava disadorno, innervato di ferri, tamponato di malta, separato, irraggiungibile, silenzioso. Dentro la sfera non c'era niente di interessante, ma quando osservavo la sua buccia avvertivo una brezza siderea.

 

*

 

La palla mi piacque talmente tanto che dsecisi di perfezionarla.

Per impedire la dilatazione e lo schiacciamento dell'involucro, all'inizio trapassai la sua  metà  inferiore  con  molti  tiranti  tesi  e  incrociati orizzontalmente  a collegare

ognuno due punti opposti, ma quel sistema, si mostrò inadatto ad impedire l'appiattimento della zona più bassa. Allora, rollai un cilindro di argilla, poi nella sua zona mediana impressi due schiacciature sfalsate, vi praticai due grossi buchi, spartii la testa del cippo in quattro petali uguali, all'altra estremità del gambo attaccai un piedistallo rotondo, quindi fissai il traliccio sul fondo della coppa a sostenere la raggiera che avrebbe immobilizzato l'assieme. Dal foro basso calavo le prime sartie ad imbrigliare le maglie vicine alle fondamenta dell'albero, poi allargandomi in circolo diradavo gli ancoraggi incocciando gli stalli sempre più in alto,  così  la boccia veniva preservata   immobile  dai   cavi interni   che   trasferivano   la  loro

tensione sul perno, che a sua volta la scaricava sul piano di appoggio.

Con quel sistema avrei potuto reggere qualsiasi tipo di guscio, ma preferivo le sfere. Ne produssi di ascetiche bianche, nere tenebrose e magmatiche arancione. Gradivo averne sempre una sott'occhio, e ne dislocai per tutto lo studio.

 

*

 

Ero contento di aver trovato un un procedimento costruttivo nuovo, però il suo utilizzo risultava ormai troppo facile. Avevo inventato una procedura insolita, si! e allora? cosa me ne dovevo fare? Sapevo invece di dovermi volgere urgentemente ad altro, perché mi aveva colpito la bellezza dei tozzetti di creta che pallottolavo attorno alle sculture in allestimento. Li avevo notati intanto che mi dannavo a congegnare le ragioni di questo con quello, e mi era piaciuto il loro modo di non tradirne nessuna. Mi pareva elementare, sproblematizzato, ideale. Quel niente, mi incantava; e osservando che certi scampoli ne contenevano molto, cominciai a collezionare i più saturi.

Da qualsiasi tocchetto di creta emergeva un'immotivata bellezza, ed io che mi piccavo di saperne solitamente riconoscere le specificità di ciò che si vede, supponevo la più speciale in quei tozzetti che non ne lasciavano scorgere nessuna. Ne ero assolutamente sicuro: la vedevo! La vedevo così spesso da supporla il mattone fondamentale dell'apparenza. In quelle sbocconcellature di creta la leggevo chiarissimamente, però mostrarla mi era quasi impossibile, perché potevo riuscirci soltanto attraverso una scultura che apparisse talmente semplice da non lasciarsi neppure pensare, e per trattenere qualcuno davanti a quel nulla, dovevo proporne di molto speciali.

All'inizio, mi pareva  anche facile: da principio mi bastava prendere un pezzo di creta, dargli un pizzicotto, ed era come sgusciare i semi rossi dalle bacche del pitosforo. Poi finii per stancarmi, diventai esigente, cominciai a smodellare i pezzetti con entrambe le mani, con entrambe le mani e gli occhi chiusi, con gli occhi chiusi senza pensarli o maneggiandoli dietro la schiena, ma i sistemi che adottai dettero soltanto dei risultati provvisori, perché dopo qualche settimana cominciarono a sembrarmi deboli anche gli scampoli migliori, e in seguito li trovai tutti insufficienti.

Si ripeteva sempre lo stesso copione. I pezzi fortuiti riuscivano a solleticarmi, però alla lunga tradivano immancabilmente dei vuoti o degli eccessi, e oltre a ciò, anche se me ne fossero capitati di perfetti, avrei comunque dovuto amplificarli in una scultura, e una scultura perfettamente casuale, non la sapevo eseguire.

"Non ne sono ancora capace" dissi "So cosa ci vuole, so di non averne abbastanza, però so fare altre cose. Mi conviene trasferire l'esecuzione dove sono più forte: bisogna che sfrutti la mia inventiva di costruttore, mi serve l'aiuto di un attrezzo, perfezionerò il trapezio."

 

*

 

L'appenditoio che avevo approntato qualche tempo prima era sottodimensionato, per cui si lasciava flettere dal peso della creta. La discesa del marchingegno mi impediva di prestabilire la quota delle aggiunte che calavano a gravare le une sulle altre, costringendomi a riparare continuamente il pezzo, che spesso si sgangherava sul piano di atterraggio.

Con quel trabiccolo mi estenuavo in continui rattoppi, e quando riuscivo a rabberciare la foggia rischiavo di perderla in essiccazione, perché essiccando restringeva, il restringimento la faceva ovviamente accorciare, accorciandosi saliva ad appendersi poi pendeva dal trapezio come una marionetta, ed anche anticipando il sollevamento con una graduale potatura degli stoppini più tesi, a volte non riuscivo a scampare la rottura dell'opera; per cui decisi di ingrandire irrobustire e dotare l'armamentario di un sistema di contro bilanciamento, che lo condizionasse ad  assecondare  la  diminuzione  del  modellato.  

Ripartii dei ganci metallici su di un grosso listello di legno che vincolai al soffitto del laboratorio con dei tappi a pressione (A); intrecciai una griglia di ferro sufficientemente grande rigida e fitta da prestarsi a qualsiasi ormeggio (B), e dagli angoli di questa struttura diramai quattro bretelle a convergere a coppie in due occhielli. Agli occhielli legai due drizze; inferii le drizze dentro due carrucole fissate al trave a soffitto; trapassai un'altra coppia di carrucole posizionate ad un'estremità dello stesso trave; calai le cime per terra; le ancorai separatamente a due secchi appesantiti (C); regolai le funi a frenare la griglia all'altezza degli occhi, e  piazzai  il  piedistallo  un metro  più  sotto.   Così  sul piedistallo posavo quello

 che sapeva reggersi, e sulla griglia appendevo ciò che aveva bisogno di essere sostenuto.

Procedevo in questo modo: alleggerivo preventivamente i secchi, poi durante la lavorazione li caricavo gradualmente della zavorra necessaria a pareggiare l'accumulazione della scultura, e quando questa indurendo richiedeva sempre meno sostegno e diminuiva di volume e di peso, parimenti sgravavo i contenitori che cominciavano a sollevarsi dal pavimento, consentendo alla griglia di scendere per quel tanto che il modellato la tirava a sé.

Il macchinario era elementare,  e la sua operatività andava continuamente rapportata alle esigenze del pezzo; l'essiccazione di quest'ultimo sviluppava un'ampia gamma di richieste a cui l'attrezzo non poteva rispondere, ed io dovevo intervenire a disinnescare i contrasti o più semplicemente applicarmi ad individuare con le dita gli stoppini troppo tesi, e recidere generalmente i corti che reggevano la forma in alto, perché quella pur ritirandosi allo stesso modo dovunque, rispetto al piano, sviluppava sopra un restringimento maggiore che sotto.

Con il trapezio riuscivo facilmente a portare la scultura ad uno stadio di tensione zero, ma durante la lavorazione era assai problematico evitare l'impiccio degli spaghi di sollevamento, perché allo scopo bisognava comporre l'opera dal centro verso l'esterno, e per riuscirci, dovevo prevedere il risultato da raggiungere.

Legavo una gugliata di cotone ad uno scampolo di zanzariera sintetica (D), compattavo attorno a quest'ultima il pezzetto di creta che intendevo applicare (E), lo appendevo alla griglia e lo saldavo alla forma.

L'apparecchiatura altalenante andava impiegata con molta cautela; per compensare la trazione laterale delle forme eccentriche livellavo lo stenditoio ponendogli sopra dei sassi; per concludere le lavorazioni impiegavo mediamente tre giorni, poi alla fine mi toccava azzardare anche il colpo gobbo.

Funzionava! Il trapezio mi permetteva di sfruttare la malleabilità della creta senza dimensionare il progetto alla sua cedevolezza da tenera, e mi consentiva di ragionare la fattibilità delle costruzioni considerandovi direttamente la consistenza del secco , che nell'argilla rappresa è notevole.

 

*

 

Col trapezio potevo concretizzare le forme che volevo, e per non aspettare inoperoso che asciugassero istallai subito un secondo macchinario. Quegli aggeggi moltiplicarono le mie capacità realizzative, mi ispirarono delle fabbricazioni sempre più complesse, e mi spinsero ad un impegno che presto cominciò a sembrarmi eccessivo, perché l'attrezzo svincolava la pasta dalla forza di gravità, fornendomi una materia priva di resistenza, con la quale potevo visualizzare e verificare le ipotesi, migliorare le mie prestazioni via via sempre più in fretta, tanto che mi venne timore di non poter reggere il ritmo. "Troppa grazia!" dicevo "Ho un sistema nervoso robusto ma, se continuo a scapicollarmi in questo modo, presto o tardi finirò per schiantarlo."

Ero stanco. Da quando avevo cominciato ad usare la ceramica non mi ero mai concesso uno stacco, e mi sentivo stanchissimo. Pedalavo in salita da tre anni, ed ero così sfiatato da non osare nemmeno una pausa, perché a posare un piede per terra, temevo di non poter poi ripartire.

Progredivo veloce, ne ero soddisfatto, ma non ne potevo più. Per fare quello che preferivo mi ero sistematicamente liberato di ogni obbligo, e poco alla volta ero diventato schiavo della mia operosità. Dopo tanti enormi vasi a mosaico avevo scelto la ceramica anche per rilassarmi, invece le sue fasi esecutive si scaglionavano nel tempo, il laboratorio si affollava di sculture incompiute, per ultimarle dovevo recuperare gli stati d'animo che me le avevano fatte intraprendere, per riuscirci mi serviva molta energia, la mia cominciava a scarseggiare, così mi trovavo necessitato a sollecitarla con sempre nuovi entusiasmi che ormai, come le caramelle a stomaco vuoto, bastavano soltanto ad un brevissimo scatto. Per continuare la corsa avevo bisogno di ingoiare caramelle a ripetizione, per procurarmele scarabocchiavo dalla mattina alla sera. Quello sforzo continuo era frastornante, per contrastare lo stordimento mi spingevo allo strazio, e ritenevo necessario persistervi.

 

*

 

Se gli artisti dovessero obbligatoriamente attendere la graziosa coincidenza di un'ispirazione, non combinerebbero mai niente, e se da sempre non si fossero dannati a cercare l'assetto che porta all'opera, forse, non esisterebbe neppure la parola ispirazione.

Per fabbricare delle opere d'arte bisogna lavorare anche contro voglia, e nei periodi in cui non si sa cosa fare si deve insistere persino più del solito, perché la mancanza di ispirazione è un sintomo. E' la conseguenza di scelte incompatibili o sbagliate, che poco alla volta sviluppano delle tossine paralizzanti. L'impedimento viene dall'interno, dentro quel chiuso non si distingue praticamente mai niente, e per sfondare i miei sacchi mi costringevo tutti i pomeriggi in laboratorio.

Quando non me la sentivo facevo una fatica tremenda, e se mi mancava l'ispirazione era un vero supplizio: a non far nulla mi strangolava la noia, e a lavorare senza entusiasmo diventavo triste.

 

*

 

Un pomeriggio che non sapevo cosa fare cercai dei pretesti dentro uno scatolone di schizzi, e trovandoli detestabili tutti, scelsi il più illeggibile. Rigiravo lo scarabocchio senza sopra né sotto continuando a ripetermi: "E questo, come potrei considerarlo?"

Siccome l'aggrovigliamento dei segni non mi permetteva di individuare un elemento apprezzabile, per dotare la scultura della personalità ottica necessaria a supplire quella carenza, decisi di effettuare una trattazione esasperatamente materica; poi, per dare risalto ed autonomia alla sostanza, tentai di comporla dentro una forma senza forma o anche soltanto diversa da tutte le altre e, pur ritenendo che l'indeterminatezza assoluta si stagliasse irraggiungibile nell’olimpo delle perfezioni, dato che non avevo niente da fare, mi incamminai da quelle parti.

Per mostrare quel non sapevo neppure io cosa, dovevo agire in modo che l'osservatore non vi potesse scorgere nulla, perché se gli avessi offerto la possibilità di sfantasiarsi ad intravedere anche soltanto uno zoccolo di somaro, sarebbe galoppato chissà dove. Per indicare ciò che avevo visto dovevo fabbricare un buco nero capace di risucchiare le elucubrazioni di chi si fosse trovato a guardarlo, e per riuscirci tentai di assemblare un discorso visivo in cui, il senso apparentemente incongruo della frasi discordanti, doveva paventarne uno occulto. In pratica, mi cimentai in una specie di nasconderello: enunciavo dei collegamenti, accennavo un moto, alludevo un volume, poi li stoppavo deviandoli a occhio fuori dal prevedibile: dosavo una stonatura costante misurandola sul dolorino che mi procurava, mi conservavo sintonizzato su una lunghezza d'onda che non mi permetteva di pensare, tant'è che non capivo io stesso cosa andavo facendo.

Per spingere la matericità al parossismo, sforacchiai e diversificai tutto, lo strizzai fino all'urlo, trapuntai l'interno di ferretti che tempestai di lamelle di creta, e al termine non potevo ancora capacitarmi di quello che avevo prodotto. Non mi era mai successo. Sulla qualità dei miei manufatti mutavo frequentemente opinione, ma non mi era mai capitato di non averne. La pulce del dubbio è un inestirpabile parassita dell'artista, ma fino a quell'estremo non mi aveva mai pizzicato.

"E questo, cos'è?" ripetevo insistentemente. Mi ponevo la domanda cento volte al giorno, e continuai fino al compimento del pezzo.

 

*

 

La ceramica campeggiava al centro dello studio ed io le giravo attorno. Aveva una foggia grifagna che artigliava lo sguardo, era tutta arancione, sfavillava come il fuoco, mi sembrava tremendamente spiacevole e la gradivo moltissimo. Ogni suo centimetro di superficie vociava qualcosa, ma non somigliava a niente. Era forte, rabbiosa, elusiva. Ne fui soddisfatto! Dissi: "L'hai presa, finalmente. Bravo! sei stato bravo! E’ un po' fracassona, ma possiamo contentarcene, però, adesso, dato che l'hai acciuffata per caso, per farne delle migliori, devi dire cos'è.""

"Uffa! Che cos'è,  che cos'è! E' un coso!  E' uno di

      centimetri  43 x 40

quei cosi così! E' una cosa così com'è!"

"Una cosa così com'è? Ma le cose così come sono, come sono?"

 

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