Capitolo  4

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Volevo due vasi da interno alti un paio di metri per 50 - 60 centimetri di diametro, snelli ma non troppo secchi.

Volevo dargli una forma sobria e strepitosa, però col disegno non riuscivo a conciliare le due esigenze. Il profilo mosso risultava molesto, il lineare diventava monotono, disegnavo senza venire a capo di niente. Corteggiavo l'alterità di una pennellata verticale; non riuscendo ad agguantarla sul foglio la cercai con la creta; dopo parecchi giorni di tentativi non avevo ancora trovato nulla; impugnato un coltello, calai un fendente sulla colonnetta.

Il colpo spiccò una porzione che restò sospesa ad un gambo, e il corpo pastoso evidenziò il passaggio della lama in molti modi diversi: il bordo del varco d'entrata si arrotondava liscio verso l'interno, quello di uscita sporgeva in una lunga ferita sfrangiata, e le varie zone del cippo si mostravano agite proporzionalmente alla loro distanza dal taglio che, oltre a spartire e trascinare, aveva anche compresso; per cui scendendo da sopra aveva schiacciato la sommità a spiovere dentro allo scasso, incurvato il dorso della cotiledone grossa, spinto giù la sottile, e perso velocità fino a scaricare la sua pressione residua sulla base che se ne mostrava rigonfia.

Su di un corpo più congegnato il fendente avrebbe fatto uno scempio, mentre invece su quell'anonima colonna, lo sfregio diventava ornamento.

Lo spacco mi sembrava decorativamente insensato, però la massa se ne mostrava talmente insolluccherita da farmelo apparire plausibile, ed io che desideravo un pezzo vistoso, ne fui subito attratto.

Se avessi congetturato il taglio con un disegno non sarei riuscito ad immaginare la pluralità della deformazioni conseguenti, invece le molte che mostrava il modello di creta mi convinsero ad affrontare quel soggetto, perché conoscevo la varietà, capace di rendere convincente ogni tipo di simulazione.

 

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L'importanza della varietà mi era stata indicata dal preside, il quale, una mattina dopo il solito predicozzo, mi disse: "Guarda questi due candelieri uguali" e li aggiustò vicini sulla scrivania "Sono uguali! ma la lieve differenza con cui la luce li investe, gli dà colori diversi." Osservando diligentemente constatai che era vero. Continuò: "Se non presti attenzione, non lo noti, ma se guardi bene dappertutto, ti accorgi che non c'è nulla, di uguale. Hai capito!?" Protendeva gli indici fuori dai pugni serrati battendoli uno contro l'altro per tutta la loro lunghezza. "Hai capito?" diceva. "Hai capito, cosa differenzia un quadro da un esercizio decorativo?". Con gli occhi mi indicava lo scontrarsi insistito delle dita, poi tornava a ripetermi "Hai capito?!"

Ovviamente dissi di sì, perché quando chiedevamo dei chiarimenti ci affliggevano con l'esortazione a dipingere, che lì si chiamava lavorare. "Se volete capire" ci ripetevano continuamente "dovete lavorare, poi ancora lavorare!" Così dopo vent'anni di lavoro scelsi di dare ai miei vasi delle conformazioni disuguali che stimolassero l'osservatore ad effettuare un confronto, poi per fare in modo che questi non se ne saziasse subito cercai una discordanza che si facesse avvertire senza lasciarsi scorgere, per cui prendendo esempio dai sedani che fra loro sono simili ma sempre diversi, in uno dei due vasi prolungai il taglio a spiccare la fetta quasi completamente.

Per comporre un vaso a mosaico si deve saper preordinare una sequenza di operazioni semplici, la cui esecuzione non richiede nessuna particolare abilità manuale. Non sono necessarie! Non è ad esempio indispensabile possedere l'incisiva tempestività del pugile o del soffiatore di vetro, perché c'è tempo, ma la complessità del processo, rende la sua messa in pratica estremamente difficile.

La costruzione di un vaso a mosaico è operativamente difficile come quella di tante altre realizzazioni mediamente difficili, ma qui il costruito deve giungere a manifestare una valenza estetica paradigmatica, che può essere adeguatamente apprezzata soltanto da chi conosce la sintassi e l'etimologia di quel tipo di linguaggio che, adesso, cercherò di descrivere attraverso la ricapitolazione del procedimento costruttivo.

Per approssimare il procedimento dirò che sagomavo dei modelli di polistirolo, che li intonacavo di cement'armato e che su quello attaccavo le tessere, ma così dicendo fornirò soltanto un resoconto cronologico che non esplicherà l'andirivieni delle valutazioni soggiacenti, che in questa fase appesantirebbero improduttivamente la spiegazione; e per rendere quest'ultima ancora più comprensibile, provvederò ad illustrare subito le caratteristiche del cemento.

 

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Il cemento è una mescola di sostanze rocciose triturate a caldo, che impastate con acqua solidificano progressivamente. A qualche ora dalla miscelazione il cemento accenna un inizio di presa; per sviluppare le sue caratteristiche ha bisogno di umidità, e dopo circa trenta giorni raggiunge l'80% della sua resistenza. L'indurimento del cemento viene detto tiraggio, perché maturando tira implosivo su se stesso, e se non vi si aggiungono le dovute percentuali di inerte (sabbia, polvere di marmo, ecc.), il cemento sedola e si spacca. In edilizia, il cemento viene impastato con due, tre, o anche più parti di sabbia. Il cemento sopporta la compressione ma oppone poca resistenza alla trazione, e per compensare questa sua debolezza bisogna radicarvi del ferro. In quest'assieme che viene detto armato, il cemento regge lo schiacciamento, mentre il ferro si oppone al distacco. Agli sbalzi di temperatura ferro e cemento reagiscono quasi allo stesso modo, per cui la loro coesione rimane invariata nel tempo. Rimane invariata, purché non vi si infiltri dell'acqua, perché se l'acqua raggiunge il ferro, il ferro arrugginisce e gonfia, gonfiando sedola il cemento, le sedole lasciano filtrare ancora più acqua, così la disgregazione progredisce inarrestabile. Per prevenire l'inconveniente non si deve usare più ferro di quello che serve, e quando lo si adopera bisogna isolarlo ermeticamente all'interno del cemento. Sul cemento si possono fare delle aggiunte, ma la superficie su cui si va ad aggregare la malta dev'essere umida, pulita e ruvida. Per migliorare la presa del riporto, bisogna frapporre del cemento puro diluito con acqua chiamato latte di cemento. Per ottenere una ripresa perfetta si deve far aderire capillarmente l'impasto. Del cemento che aderisce si dice che aggrappa, e la sua stretta può essere forte.

 

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Per costruire i miei vasi usavo una cazzuola grande e una piccola, qualche bacinella di plastica, tagliola e martellina da mosaicista, sega da legno e da ferro, rete esagonale sottile o elettro saldata a quadratini da un centimetro, filo metallico assortito, forbici da lattoniere, scalpelli, pinze, tenaglie, tronchesine, livella, angolare, tubi innocenti, argano manuale, tondino da costruzione, polistirolo, cemento, sabbia, materiali da comporre a mosaico, un grembiule, delle spazzole, qualche pennello, un trapano e poco altro ancora.

 

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L'allestimento di grandi vasi a mosaico comportava il superamento di molti passaggi scabrosi, e per non incontrare poi delle difficoltà insormontabili, prima di cominciare l'opera, cercavo di prevederne le fasi. Cercavo, ma oltre un certo limite le incognite diventavano troppe, le proiezioni mnemoniche sfocavano in distanza, per cui mi trovavo costretto a diagnosticare la fattibilità quasi intuitivamente, soppesando i pro e i contro per mezzo dell'esperienza che, all'opposto di come la si concepisce di solito, non è soltanto un serbatoio di soluzioni già pronte, ma piuttosto la conoscenza di come inoltrarsi a penetrare quello che non si sa, o a compiere quello che non si è mai fatto.

Chi fabbrica acquisisce l'abitudine di spingersi immaginativamente nell'evoluzione dei processi costruttivi, impara ad individuarne gli snodi salienti ed è capace di affrontarli con spregiudicata attinenza. Chi fabbrica, conosce il gusto e la produttività del pensare esatto. Chi fabbrica si diverte, però il divertimento non gli viene certo o almeno non principalmente dal coinvolgimento fisico, quanto piuttosto dall'ebbrezza di dare forma ad un'idea.

Prima di cominciare un'opera aspettavo di essere quasi sicuro di portarla a termine, ma per trovare la voglia di impegnare dei mesi di lavoro, il conseguimento doveva apparirmi sempre un po' avventuroso.

 

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Approntai un tavolo posando un piano su due cavalletti, vi appianai sopra un foglio di cellofan, e cominciai subito la costruzione delle basi, perché quelle avrebbero retto immediatamente tutti i pesi, per cui dovevo dar loro il tempo  di indurire.  

Tradussi le misure del bozzetto in scala reale, sottrassi lo spessore del tipo di tessere che ero intenzionato ad aggiungere, tolsi qualche altro centimetro per fare spazio alle fasciature di rinforzo, poi alla fine del calcolo con un pezzo di spago un chiodo e un pennarello, tracciai due cerchi sul foglio di cellofan. Per quelle piccole piattaforme stimai sufficiente uno spessore di 5 centimetri, e per realizzare gli stampi tagliai dei listelli di polistirolo 5x5; li incisi su di un lato con dei profondi scassi trasversali, volsi il loro bordo integro a recintare  le  circonferenze  precedentemente stabilite,  quindi  inchiodai al  centro un dischetto alto

 4 largo 6 per lo scolo dell'acqua, e dopo aver così concluso le casse di contenimento apparecchiai le armature di ferro.

Sagomai due anelli perimetrali  interni  con del tondino da 8 millimetri, (A) vi incrociai sopra quattro sbarrette più sottili (B), avvolsi le intelaiature con un doppio

strato di rete esagonale (C), fasciai le circonferenze con una corona di rete elettro-saldata (D), cucii con la spranga, poi calai le strutture negli stampi.

Per ottenere una malta resistente dosavo sabbia e cemento al 50%, e la mescola non fessurava perché la rete gli impediva di muoversi.

Per completare le basi colmai le casseformi d'impasto, lo spatolai a spiovere dai bordi di 5 ai dischi centrali di 4, contenni la sua evaporazione con un foglio di plastica  e  lasciai riposare.  Il   giorno   dopo  liberai   le ciambelle, le irruvidii, le bagnai, le avvolsi di nuovo nel cellofan, quindi cominciai a preparare i modelli di polistirolo.

  

 

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Questi modelli non erano un equivalente dei vasi, ma i corrispettivi delle loro cavità interne, e per anticiparne le dimensioni, a quelle finali dei pezzi da conseguire, sottraevo lo spessore degli strati di cemento e delle tessere che intendevo applicare in seguito.

Per fare i modelli acquistavo dei parallelepipedi di polistirolo di centimetri 50x100x200. Per l'occorrenza divisi un unico blocco in quattro longaroni di centimetri 25x50x200 (A); poi arrotolai della carta vetrata su di un tubo adeguato con cui grattugiai longitudinalmente un solco semicircolare al centro di ogni spezzone (B), che attaccai in due coppie a far combaciare gli scassi, ottenendo due travi da 50x50x200 forati nel mezzo (C). Dopodiché riportai i frontespizi dei modelli sulle 8 facciate lunghe, e ripassando le tracce con una resistenza elettrica incandescente conseguii delle approssimazioni quadrangolari di riferimento (D).

Dirozzai le forme, vi scavai una rientranza alta 10 profonda 3 a 150 centimetri di quota (E), decapitai i fusi di polistirolo 5 centimetri sopra lo scasso (F), li riattaccai con della colla debole e assottigliai la parte più bassa.

 

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Dopo aver ultimato i modelli smontai il tavolo ed eressi un castello di quattro tubi innocenti obliqui che ne reggevano un quinto orizzontale a soffitto. Sul pavimento

 sottostante distesi un foglio di cellofan, sopra il cellofan posai le due basi, sfrangiai  le  loro  corone  sporgenti, trapassai  i  modelli  con  due lunghe   sbarre  di  ferro,  le fissai in alto al sostegno piantandole in basso dentro al buco delle piattaforme, così il trave tratteneva le sbarre, le sbarre con funzione di spiedi obbligavano i modelli sulle basi, e io potevo spostare queste ultime per perfezionare l'inclinazione degl'impianti. Ciò fatto stabilii l'altezza dei vasi, poi stesi il primo strato di intonaco (A).

Ad esclusione di 25 centimetri dei modelli in alto che consideravo in eccesso e di quella loro parte in basso  che veniva circondata  dalla  corona  di  rete della  base,

glassai il polistirolo con uno strato di 4-5 millimetri di cemento 50%, lasciando scoperti due buchi contrapposti dentro ognuno degli scassi superiori (B); quindi irruvidii l'intonaco con uno scopetto di saggina, avvolsi tutto con dei fogli di cellofan, e il giorno successivo approntai gli attacchi di sollevamento. Per quelli tagliai quattro segmenti di sei anelli di solida catena, li spinsi per metà dentro ai fori che avevo predisposto, e cominciai a stendere la rete.

 

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Nonostante la statica di queste forme non necessitasse di rinforzi, per fare in modo che i vasi potessero reggere gli urti e gli spostamenti era indispensabile introdurvi un irrobustimento di rete, e dove stimavo un maggior bisogno, ne applicavo di elettro saldata, e quando valutavo sufficiente una protezione generica, ne aggiungevo di esagonale.

All'inizio, dentro i due scassi alti cinsi molte fasce di rete tamponata di malta 50%, così da conseguire due cordoli che inglobavano solidamente le catene di sollevamento; quindi, considerando che ogni vaso sarebbe rimasto talvolta appeso al suo anello interno, collegai quest'ultimo alla corona sporgente della base corrispettiva con delle bretelle di rete elettro saldata. Quando l'imbracatura mi parve abbastanza robusta predisposi delle pezze di ancoraggio per le fette di cui parlerò fra poco, ricoprii tutto il corpo con un doppio strato di rete esagonale, appuntai assieme i tessuti diversi, tagliai le maglie che eccedevano l'altezza dei vasi, li bagnai, li spalmai di latte di cemento e stesi ovunque  un secondo strato di malta. 

Poi,  conoscendo le sollecitazioni a cui erano esposte le basi durante la costruzione e i successivi spostamenti,  cinsi più strisce di rete elettro-saldata a protezione del bordo inferiore dei basamenti, e dopo aver fatto loro raggiungere la circonferenza prevista, definii i corpi aggiungendo altra malta, li irruvidii, e li conservai umidi sotto cellofan.

Passato qualche giorno grattai via le cime di polistirolo che avevo decapitato in precedenza, arrotolai della carta sui  primi  centimetri   di  sbarra  che  fuoriuscivano  dai modelli, pennellai di sapone le pareti della cavità venutasi a creare con lo svuotamento, e colai al suo

interno un impasto con molta sabbia e poco legante, al fine di ottenere due rondelle provvisorie a guida dei perni (A). E intanto che attendevo il consolidarsi dell'assieme, preparai le tessere.

 

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Pur avendo deciso di utilizzare del materiale ceramicato, evitai di adoperare degli scampoli di piastrelle smaltate perché monotone e spiacevolmente sberciate sui bordi, e stimando un bisogno di circa trecento chilogrammi di rivestimento, andai a raccoglierlo fra gli scarti di fornace dove mi era possibile reperirlo già cotto. Spigolai quattro quintali di cocci di bucati, integrando la gamma con dei pezzi di mattone.

Non sapendo dominare gli esiti dello smaltaggio preparai delle bacinelle piene di azzurri a caso in cui immersi i frammenti, preservando in tutti una porzione scoperta da affondare nel cemento.

Per velocizzare le cotture stipai le scaglie colorate dentro contenitori di rete, il fuoco saldò le tessere in blocchi, a staccarle ne persi qualcuna, però dimezzai il lavoro e aumentai l'eterogeneità del materiale.

 

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Terminato l'approvvigionamento smontai la struttura di tubi, adagiai i vasi per terra, sfilai le guarnizioni di carta che sigillavano le sbarre alle rondelle, spinsi i due spiedi a sporgere equamente dalle forme che sospesi come due arrosti su quattro cavalletti e, per rigirarli ad offrire sempre il dorso alla posa, sotto ogni base avvitai una staffa sporgente con funzione di leva che facilitava il rotolamento dei manufatti, fornendomi contemporaneamente l'appiglio per bloccarli con corde.

 

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In questa fabbricazione collaudai un sistema costruttivo da me ideato qualche anno prima per rivestire le cavità inagibili di una fontana, e se non avessi avuto cognizione di quella possibilità, non avrei considerato l'ipotesi di affrontare il taglio prodotto sulla colonna di creta, che mi sarei limitato a osservare trasognatamente.

Dato che nelle fette si assommavano una quantità di azzardi logici estetici e costruttivi, per giustificare qel taglio, feci in modo che l'opera diventasse luogo di molti fatti visivamente eclatanti, per cui stabilii ad esempio che una fetta doveva fingersi sospesa ad un minuscolo picciolo, l'altra radicarsi invece solidamente, e su questa più visibile proseguirò la spiegazione.

 

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Sulla facciata del vaso corrispondente alla parete interna della fenditura fissai quattro colli di  bottiglia  a  fungere  da  ponticelli  trasparenti (A),  li  bloccai con  rete  e

cemento bianco colorato di verde, quindi da lì in poi sempre con lo stesso tipo di impasto attaccai dei cocci di vetro su tutto il piano (B). Piantai delle schegge taglienti al centro, verso l'esterno attutii le angolosità con dei frammenti semifusi, e affacciai delle piccole tessere di ceramica all'entrata e all'uscita della ferita.

Un paio di giorni dopo, sopra la porzione sommariamente mosaicata accumulai uno strato di sabbia foderato di argilla equivalente all'ammanco prodotto dal taglio (C), e per intervenire sul quel terrapieno che debordava a nascondermi la zona dell'intervento, memorizzai  dei  riferimenti  che  mi   consentivano   di stimare  la  forma  e   la

posizione della fetta. Dal  cataplasma  emergevano  i  colli delle bottiglie, e attorno a

quelli riprodussi la stesura effettuata più sotto; però nella circostanza considerai principalmente la frazione di schegge che conficcavo dentro alla creta, perché in quel tipo di posa le porzioni sommerse diventano successivamente visibili, mentre le esposte venivano poi conglomerate nella struttura (D). Versai dell'impasto colorato a coprire le tessere, lo feci percolare negl'interstizi, sovrapposi della rete elettro-saldata, la agganciai agli ancoraggi giustapposti per intercettare le protesi, imbrigliai i colli delle bottiglie, e intonacai le maglie con  un  secondo strato  di  legante (E).  Dopo  aver  così  definito l'area  del  riporto,  modellai  il  volume   con   un   impasto  di

cemento e palline di polistirolo (F) che coprii di rete esagonale (G); agganciai quest'ultima agli speroni dell'elettro-saldata che avevo lasciato sporgere a lato, intonacai tutto di malta forte (H), irruvidii e protessi.

I  vasi  in  cemento   armato  erano pronti,  e intanto che 

consolidavano selezionai il rivestimento.

 

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Le tessere erano lucide e opache, grandi e piccole, regolari e non. Allestii due tavoli, vi ordinai sopra il materiale, distinsi le tonalità, separai i formati, e posto tutto in bell'ordine, rimossi l'intercapedine di creta .

Gli spacchi riverberavano luminosi, e il laboratorio traboccava di colori.

Le forme esibivano la sensazionalità degli squarci, ma la loro ragione estetica sarebbe potuta emergere soltanto attraverso una meditata variazione degli andamenti superficiali, e per fare in modo che il mosaico non li intorpidisse, dovevo adagiarlo leggero ed intenso: così leggero da lasciar trasparire la flessuosità delle linee, e così intenso da compensare la vistosità della crepa.

Di solito, adoperavo delle tessere spesse che illudevano di proseguire all'interno, però l'interno era già occupato e caratterizzato dai vetri, e disponevo soltanto di tessere sottili. Ne assortii una manciata, e cominciai a giocarci.

I molti modi in cui le piastre si lasciavano comporre  mi indussero a tentare non soltanto un abbellimento della forma, ma soprattutto un'illustrazione delle tensioni che l'avevano agita, per cui, trovandomi a dover elaborare una superficie assai varia, dato che il modello di creta non ne suggeriva, scelsi di rivestirlo immaginativamente di un guaina di ceramica compatta, e di fantasticarvi sopra le conseguenze del colpo.

 

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L'uso delle tessere era complicato dalla disomogeneità delle tinte, e non potevo scartarne nessuna perché mi era strategicamente indispensabile una minima sovrabbondanza. Mi trovavo ad usare i colori dopo tanti anni che non li frequentavo, ed ero obbligato a dipingere quel quadro con le rimanenze di pochi tubetti. Feci un minuzioso inventario, lo considerai a lungo; poi notando che il celeste pallido mostrava un'alta concentrazione di pezzi piccoli, decisi di impiantarli all'entrata del taglio dove mi servivano dei tesselli minuti, ed essendo costretto a rimarcare quell'ingresso con la nota più fiacca, ispirandomi ai contrasti che screziano i vegetali, per lo strappo in uscita dai sedani, ipotizzai l'impiego degli azzurri più intensi.

Dopo aver censito il materiale disponibile deliberai di corroborare le tessere brutte nell'agitazione delle parti scosse, di distribuire le belle genericamente dappertutto, e d'incastonare le smeraldine a ravvivare le superfici anonime.

 

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Per migliorare la presa della malta mantenevo umido il supporto e immergevo il rivestimento nell'acqua, e per facilitare la posa disponevo le tessere in strisce longitudinali, alternando il lavoro su entrambi i pezzi che ruotavo di qualche grado ogni giorno.

Conoscendo le sollecitazioni a cui venivano forzate le tessere, per far consolidare in tempo quelle più esposte, ne attaccai di grosse tutt'attorno alla base, e per sottrarre il mosaico al contatto del pavimento, lo feci partire due centimetri più in alto.

Applicando il mosaico sul lato superiore dei vasi allo spiedo non dovevo tener conto della forza di gravità, e potevo verificare e modificare la stesura componendo le tessere a secco, così, quando la loro distribuzione pareva soddisfacente ne sollevavo alcune, pennellavo la radura con del latte di cemento tinto di verde, aggiungevo della malta 50% dello stesso colore, quindi ricollocavo i tesselli perfezionando la loro inclinazione.

Quell'assetto orizzontale permetteva di eseguire ogni sorta di incastri, ma impediva di considerare visivamente il pezzo nella sua posizione naturale, ragion per cui ero costretto a stimare l'assieme con una ricognizione intellettiva del suo aspetto, e riuscirci era molto difficile.

Per cominciare come sempre da ciò che mi pareva certo, stesi l'azzurro sul taglio di entrata. Quell'azzurro non mi piaceva, la maggioranza delle tinte mi parevano brutte, e le più belle mi sembravano troppo belle. Usai le tessere che mi capitavano fra le mani, braccai lungamente gli scampoli adatti, perseguii i miei propositi approfittando delle combinazioni fortuite, cercai di configurare un ordine e disseminai delle eccezioni isolate.

 

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L'azzurro è rado sopra e preminente in basso. In alto spicca solitario per contrasto, scendendo si allarga, poi si spegne diventando il colore di sottofondo. L'azzurro riveste i bordi del taglio che si insinua dentro al reticolo ascendente del vaso. La trama dell'azzurro è complicata dalla compressione sotto all'inguine dello spacco, e dal rimpicciolire delle tessere che gli scivolano dentro. Sulla campitura azzurra, i caratteri del mosaico si contaminano in azzardate mescolanze: il tono di un quadretto accentua la visibilità di un andamento, l'incisione di una linea rinvigorisce un timbro, la frammentazione di un ordito smorza un contrasto, e le tessere si collegano in un parapiglia di relazioni che dissimulano la scansione dei generi.

L'azzurro sgorga dall'alto in lunghe listarelle che vengono risucchiate dall'oscurità della crepa, scende a lambire una chiazza cupa a sinistra, si sgrana in una scacchiera di toni smorti, si incurva in placche squamose sotto al limite della fenditura, poi svirgola a destra ad espandersi sulla fetta.

 

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Nei mosaici c'è sempre troppo mosaico, e sulla fetta tentai di eliminarlo.

Nei vasi traducevo i connotati dell'esistente, per renderli effettivi li assettavo con logica, per consentire all'opera di risultare più percepibile del vero aggiungevo solitamente anche un pizzico di ciò che sfugge al raziocino, ma in questo avevo decisamente ecceduto, e per dare plausibilità a quel taglio insensato, ritenni di dover introdurre una misura di realtà così abbondante, da traghettare il pezzo quasi in un'altra dimensione.

Il vaso è un contenitore, e un vaso rotto sembra da buttare. Un vaso rotto viene automaticamente giudicato un rifiuto, quindi,  se volevo che il mio apparisse bello come un vaso integro o addirittura più bello in virtù del crepone, dovevo compensare lo sconcio con una serie di sollecitazioni talmente gratificanti, da sottrarre l'elaborato all'imperio del senso comune. Sicché ad occhio e croce, per emendare l'astrusità di quello spacco giudicai indispensabile l'apporto di un intervento estetico che fosse capace di incarnare e risolvere ogni incongruenza, per cui a quello scopo trasformai il vaso in un paesaggio, perché un monte non sembra mai rotto, un torrente mai storto, e quando il secondo scorre alle falde del primo, non si scandalizza nessuno.

Delle caratteristiche del paesaggio scelsi quella che mi sembrava più tipica; e per raffigurare la palese concordanza di forme e  sostanze differenti, decisi di bilanciare due tipologie diverse in un'unica configurazione.

Per omologare lo sfregio dovevo allestire una scenografia dove molte calibrate trasgressioni ai modi soliti di concepire l'armonia del visibile, portassero l'osservatore ad accertare la qualità estetica dell'eccezione in genere, e del mio taglio in particolare. Era indispensabile! Dovevo impedire allo spettatore di applicare il suo metodo di lettura o di decriptare il mio, perché se gli avessi lasciato la possibilità di ragionare, se ne sarebbe sicuramente uscito con un: "Chi sarà mai quel deficiente, che costruisce dei vasi già rotti?!" Dovevo tempestarlo di suggestioni ambigue, dargli delle emozioni che non lo emozionassero in nessuna maniera riconoscibile, allertare i suoi sensi e stoppargli il pensiero; per cui stabilii di allestire un antimosaico sopra la fetta, o più semplicemente un mosaico, che conseguisse il solito effetto in modo diverso.

Volevo che le due sculture risultassero leggibili come le foglie che spuntano dai rami che si collegano al tronco, e insondabili come le sensazioni di un albero; quindi, pur armonizzandosi alle ragioni della forma, l'antimosaico doveva risaltare talmente evidente da consentirmi di scandire il tronco in taglio di entrata, fetta, taglio di uscita e dorso, cosi che le quattro ambientazioni collegate e distinte, reiterassero indefinitamente la curiosità di chi guarda.

Volevo che il mosaico delle fette rammentasse la scompaginata accumulazione delle arenarie franate che osservavo nei miei vagabondaggi ciclistici in montagna, per cui, dopo aver accatastato le tessere grandi, utilizzai le più fosche per tingere la scena di un livore catastrofico.

Le piastre avevano molto carattere, e si lasciavano difficilmente accordare, e a spiegazione della specificità del puzzle, paragonando le tessere alle lettere di una parola, direi che per commentare le protesi usai dei brandelli di frase.

Pur comunicando la stessa tensione ottica del mosaico, l'antimosaico doveva sembrare tutt'altra cosa, e per non farlo apparire soltanto disfatto, avevo bisogno di subissare l'osservatore con un flusso di informazioni precise; ragion per cui simulai un terremoto eliminando la coesione dei bordi, poi compensai la soppressione di quell' elemento caratteristico accentuando gli altri.

Collegando le tessere a distanza ottenni una cacofonia apparente nella quale ogni pezzo veniva spalleggiato dai vicini, e la pluralità degli assoli risultò così incalzante da non permettere quasi di fermare lo sguardo.

Dal taglio di entrata, l'azzurro si spinge in una macchia centrale di tinte blu e marrone delimitata per tono e ravvivata per contrasto; il pantano cola livido a rimarcare il rigonfiamento prodotto dal colpo, e in corrispondenza delle zone maggiormente sconnesse è più vasto e più scuro che altrove. Le tessere esibiscono una moltitudine di smancoli e cordolature, e le spinte si intersecano in una frammistione di meridiani e paralleli scompaginati di contrappunti trasversali, che confluiscono in una frangiatura turchina sul lato destro della fetta.

 

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Il taglio sulla colonna di creta era il giacimento da cui ricavavo la maggior parte dei suggerimenti utili alla narrazione, e non me ne distraevo mai; però le mie cure si volgevano principalmente ad allestire un marchingegno che riuscisse ad accalappiare l'interesse, e a quel fine usavo parecchie altre esche. Nell'opera non scorgevo nessun bisogno di corrispondere le caratteristiche del modello di partenza, e trovavo invece importante rafforzare la congruità di un rapido alternarsi di situazioni che soddisfacessero l'abitudine dell'occhio a godere di molti aspetti diversi, perciò, dopo le asperità della fetta, volli far seguire una zona di quiete.

La frangiatura prodotta dal fendente in uscita mi offriva l'opportunità di comporre uno scorcio suggestivo, ma la pianura che iniziava immediatamente dopo era ampia e monotona, così per ammorbidire il passaggio preferii minimizzare lo squarcio, e allo scopo sovrapposi delle scaglie sottili, affacciai qualche vetro a prosecuzione dell'interno, abbozzai un po' di bonaccia e affrontai la traversata.

L'uniformità del dorso rendeva difficile la sua equilibratura col resto, e per movimentare la distesa vi definii quanto più nitidamente delle scansioni. Le tessere si aggrinziscono sopra nel solito fastellamento, sotto sono solide e orizzontali, a mezz'altezza vicino al taglio c'è una striscia dorata di piastre grandi, a destra della striscia si assembrano dei gruppi di quadratini verdi, nel centro fluiscono dei rivoli viola a cui seguono le macchie cupe che precedono il celeste. Le tessere sono strettamente connesse, i colori si alternano con garbo, il dorso scorre pacatamente vario.

 

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Terminato  il  rivestimento  ricomposi  il  castello  di  tubi innocenti,   vi  agganciai  il

paranco, sollevai le forme, smobilitai i cavalletti, tolsi le leve avvitate sotto alle basi, calai i cilindri su dei giacigli di stracci, sfilai gli spiedi, demolii le rondelle, grattai via il polistirolo fino a raggiungere i cordoli da cui sporgevano internamente le catene per mezzo delle quali eressi i vasi, che immancabilmente a quel punto non mi piacevano mai, perché a forza di vederli distesi mi abituavo ad immaginarli chissà come, e la differenza che rilevavo osservandoli in verticale me li rendeva antipatici. Era un effetto spiacevolissimo, ma transitorio. Ritrovata la voglia di lavorare foderai la bocca con delle scaglie di vetro fuso, poi ispezionai lungamente le due opere incollando ogni tanto qualche tessera di perfezionamento.

centimetri 185 x 60

 

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Non diversamente da chiunque consideravo il mosaico una sorta di smontaggio e rimontaggio del visibile, e il resoconto di questa costruzione mi sembra che evidenzi la mia maniera di organizzare ciò che ritenevo otticamente notevole.

A quel tempo pensavo che l'opera visiva fosse un concentrato di ciò che si vede, e che la sua efficacia (se non addirittura la sua qualità), si fondasse su due elementi: il primo, era il quantitativo di dati ottici presenti nella composizione, e il secondo, era il grado di affiatamento che l'autore sapeva far loro raggiungere. Di ciò, ero certo. Tuttavia, pur essendo sicuro dell'importanza di quei fattori, non capivo il prodotto della loro somma.

Cosa avrei dovuto pensare? In proposito ne avevo sentite talmente tante, che a volerne considerare anche solo una parte, la prerogativa dell'opera mi sarebbe dovuta sembrare quella di saper supportare ogni genere di contenuti, però a me pareva invece trascenderli tutti, per cui, cosa pensarne? Niente! "Sarà un miraggio" pensavo "Sarà quel che gli pare e assai poco m'importa, perché m'importa soltanto ciò che mi piace, e per poterlo trovare, non devo lasciarmi confondere dalle supposizioni. Ecco!" dicevo "Sarà che l'arte, è l'arte di allestire delle illusioni convincenti." E conoscendo quante prestidigitazioni vi si ponevano in essere, ritenevo che qualsiasi opera potesse sembrare magistrale a qualcuno, quanto legittimamente banale ad un altro, per cui specificatamente a riguardo delle opere essenzialmente visive, considerandomi esperto di ciò che si vede, stimavo il mio giudizio nient'affatto relativo, e contemporaneamente, ritenevo che un artista più esperto di me, ne potesse formulare di più assoluti dei miei.

L'essenza dell'opera mi sembrava congenitamente indeterminabile, l'azione di eseguirla quanto mai problematica, e la mia personale carburazione pericolosamente precaria; quindi, per non farmi logorare da dubbi e convincimenti ritenevo spesse volte opportuno comportarmi come se considerassi assoluto quel che mi sembrava soltanto relativo, o relativo ciò di cui ero invece assolutamente convinto, e a proposito dei due vasi blu, davo indiscutibilmente per certo che fossero due opere notevolissime.

Erano strani. Pareva che il loro autore li avesse talmente in uggia da volerli distruggere, ma quelli si ergevano alteri, non accusavano lo sconcio, e la vista delle loro ferite non procurava dolore.

Così fatti, non sembravano nemmeno dei vasi; a dire il vero gli preferivo i più semplici, però mi compiacevo di averli rotti senza romperli, rendendo plausibile la stramberia di quei tagli.

L'infarcitura di effetti mimetizzava l'insensato accidente, lo sfoggio di cialtroneria sforava il limite dell'atrocità, ma  guardando quegli sproloqui provavo un dispiacere delizioso: uno struggimento.

 

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