Capitolo  2

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L'idea di fabbricare mosaici mi era sembrata buona. Avevo tempo, spazio disponibile, qualche nozione del procedimento e la speranza di evitare il mercato dell'arte.

Credevo anche di poter riciclare la mia produzione pittorica ma mi sbagliavo. Nel primo mosaico tentai di tradurre un'impronta in cui,  cinque quantità grafiche differenti come le dita di una mano, stabilivano un equilibrio di opposti complementari. L'assieme era scandito limpidamente e di ogni sua parte avevo nitido il ruolo nel rapporto col resto ma, nonostante l'impegno che vi dedicai, non ne fui soddisfatto, perché pur non essendo  bruttissima, quell'interpretazione  non eguagliava il modello. Era pietrosa.  Non pretendevo certo di recuperare le caratteristiche del dipinto, perché   sapevo già di non poter risolvere i vuoti né i segni sottili però, speravo che la corposità delle  tessere  riuscisse  a  rifondermi   in  altro modo,

 Acquarello 35 x 50

invece le  sostanze si mostravano troppo riconoscibili, e nell'imitazione di qualcos'altro diventavano goffe.

Il secondo pezzo monocromo non azzardava segni né spazi vuoti, ma ostentava un rilievo arbitrario che lo faceva più brutto del precedente.

Credevo di essere finito in una strozza, sepolto sotto un cumulo di passi falsi, suggellati dall'ultimo di darmi al mosaico. Sedevo. Pur non provando nostalgia della pittura, rimpiangevo la mia abilità di pittore, guardavo la polvere sul pavimento dello studio, avevo le dita inanellate di cerotti e mi sentivo spento. Poi, una scatola di mattoni rotti mi parve bella come una cassetta di mele.

 

*

 

Dei mattoni rotti gradivo la sostanza, il colore, lo spessore, la profondità delle ombre e la casualità dei formati. Quei pezzi, mi piacevano nel loro stato di fatto. Agguantai l’impressione e stetti ben attento a non perderla di vista.

Le pietre mi sembravano non prestarsi ad alludere ad altro, per cui decisi di raccontare i mattoni soltanto; così, per emulare la tenebra che si insinuava fra i blocchi, scelsi di dare risalto agli spazi intermedi, per sottolineare la bizzosità dei cocci stabilii di mischiarli con delle tessere regolari, e per fare in modo che i frammenti non venissero avvertiti e liquidati come scarti, fornii una ragione ottica al loro sconquasso.  Non  volevo  ridurre il  volume  dei frammenti,  non  intendevo

lasciarli svettare immotivatamente sul piano, quindi preparai un apposito supporto.  Sagomai un modello di polistirolo di centimetri 94 di base per 104 di altezza e 7 di profondità, con un avvallamento verticale nel mezzo ed un paio di ancoraggi sul retro. Poi rivestii il tutto con uno strato di 2 centimetri di cement'armato, e su quello attaccai i tasselli. Disposi delle scoscese nervature oblique di ciottoli irregolari al centro, ai lati rasserenai gli andamenti in una lastricatura orizzontale, sottolineai cromaticamente il moto dei cordoli, assortii il colore delle tessere ai fianchi,  poi  per  opporle   all'impatto   dei    massi  le

assemblai con un po' di intervallo, così le ombre le circondarono di oscuri interstizi.

Il pannello rammentava l'alveo di un torrente in secca, la sua precisa scansione lo rendeva più suggestivo dei veri, e mi parve inaspettatamente migliore del previsto. Liscio, ruvido, ordinato e casuale, si intersecavano insolitamente conseguenti, le tessere finalmente libere dalla dipendenza di dover alludere ad altro sfoggiavano l'ecletticità della loro bella sostanza, la corrispondenza fra soggetto del racconto e materiale impiegato consentiva una percezione nettissima, e la superficie si dispiegava essenziale a scandire attinenze   e  diversità,   che portavano  l'assieme ad appagare l'osservazione.

     Centimetri 108 x 98

Le coordinate che mi avevano guidato a quel pezzo non mi avrebbero consentito di dipingere un quadro, col quale, in ogni caso, non mi sarebbe stato possibile raggiungere lo stesso effetto di presenza.

"Non so come ho fatto." dissi "Dev'essermi toccato un colpo di fortuna, perché questo mosaico manifesta un'immediatezza che non gli conoscevo, e adesso che posso osservarlo ne fabbricherò dei migliori. Ormai, vedo chiaro: il quadro è un'immagine, e il mosaico è una cosa; il quadro è fuori dallo spazio, mentre  il mosaico è qui ben presente, e se col primo si riesce a fornire un'interpretazione, col secondo si può stabilire un fatto. Il mosaico è lento, impacciato, ma se la connotazione autonoma dei materiali ne riduce le possibilità espressive, dispiegando le caratteristiche di ciò che vi si adopera, si può accrescere la composizione di una evocatività ineguagliabile."

Cominciavo a divertirmi. I procedimenti costruttivi mi appassionavano da sempre, e frequentarli nell'opera mi piaceva moltissimo. Per me, era un gioco, un gioco impegnativo, perché la fisicità del mosaico imponeva tutte le sue parti alla ribalta, costringendomi  a porre ovunque un'attenzione particolare. Anche la pittura, del resto, però con quella potevo pilotare un corollario di accenni, mentre la tangibilità del mosaico mi obbligava a una esposizione pervasiva. Vi si doveva trattare minuziosamente ogni aspetto ed era necessario riempire di senso anche quelli secondari, avevo voglia di concretezza, e la nuova prassi sembrava richiederne.

 

*

 

Quei mattoni non modificarono la mia cognizione delle cose perché non sapevo nemmeno di averne, ma lo stupore di scoprire l'inaspettata magnificenza dei cocci, mi mutò. Essendo abituato a trarre ispirazione sempre da quel tipo di incontri, non fui certo trasformato dalla sorpresa di scorgere una bellezza dove non supponevo di trovarne, tuttavia, l'abboccamento fuori dal foglio mi stupì più del solito, perché a forza di mediare ogni contatto attraverso la pittura, mi ero assuefatto a considerarla il mio cibo e, se avessi continuato a confondere forchetta con polpetta, sarei probabilmente morto di fame. Fu una svolta: il mosaico mi permise di allacciare la solita relazione in modo diverso, tanto che la novità mi consentì di osservare che i miei bocconi preferiti, erano sempre razionalmente indigeribili. "Dei pezzi di mattone rotto? Cos'avranno mai di appetitoso dei pezzi di mattone rotto?" mi domandavo.

Non sapevo capacitarmene però, costruendo, cominciai a verificare la produttività dei gesti, e delle considerazioni esatte. Il manufatto divenne il laboratorio dove sperimentavo le mie congetture e, pur non riuscendo a collaudarvele tutte, vi conobbi almeno quale grado di pertinenza bisogna raggiungere, per stabilire un rapporto fra i pensieri e la realtà.

 

*

 

La valutazione attinente e l'esecuzione appropriata animano il costruito di una concretezza assoluta, gli oggetti così conseguiti mostrano ciò che siamo soliti avvertire dappertutto, e l'opera che se ne avvantaggia riesce ad accattivarsi la benevolenza dell'osservatore.

Il costruito pone dei vincoli ma, se le sostanze non tradiscono la fatica di assecondare la funzione pratica del manufatto e i limiti meccanici dei materiali impiegati, il loro sembiante raggiunge una grande comunicatività.

Per adoperare opportunamente i materiali bisogna perseguire una mediazione che trascenda l'accezione del compromesso, perché se ci si accontenta di sfruttare l'aspetto esteriore o soltanto le proprietà fisiche di quello che si usa, si ottiene assai poco, e se ci si intestardisce a forzarne le caratteristiche, si consegue ancora di meno. La scelta non dev'essere corrotta da ciò che si presuppone migliore, né si devono esibire virtuosismi gratuiti, perché l'opera è un'inusitata coincidenza della volontà e del distacco, del fine e del mezzo, del sapere e della balordaggine, e di chissà cos'altro ancora. Inoltre, per poter fare il mosaico bisogna amare le materie ed essere smaliziatamente avveduti delle loro possibilità espressive, così che all'incanto che suscitano, segua un'incondizionata disponibilità ad approfittare soltanto di quello che offrono.

Per scoprire cosa ci piace bisogna saperlo riconoscere talmente bene da non lasciarsi sviare neppure dalle proprie opinioni in proposito, poi per mostrarlo si deve essere così bravi da poter fare a meno della bravura. Quando si è capaci di questo non è più necessario saper fare gran che ma, per poter arrivare a quel punto, bisogna assumere la disposizione adeguata.

 

*

 

La disposizione, è tutto. E' importantissima perché condiziona l'approccio, e influenza gli atti che seguono, invece le opinioni, le informazioni, i convincimenti e quant'altro consideriamo solitamente di continuo, non modificano i comportamenti di chi non conosce il proprio assetto. Ai fini di ogni conseguimento è indispensabile adottare l'assetto giusto, però distinguere anche soltanto l'esistenza di quel fattore, non è facile. Di solito, ci riesce chi coltiva una pratica estrema, è estrema anche l'azione del pittore, tuttavia, non avevo mai avvertito l'importanza della disposizione. Come avrei potuto? Dipingere, era per me assolutamente normale, e se non mi fossi mai dedicato ad altro, non avrei ad esempio notato che abbordare opportunamente anche un solo dato di fatto, è più produttivo che bordeggiare senza criterio in un oceano di supposizioni.

 

*

 

L'importanza della disposizione cominciò ad apparirmi evidente in una mattinata di sole. C'era un sole che prosciugava le nuvole, un vento che imbiancava le onde, e sul mare non si scorgevano navi. L'orizzonte seghettava il cielo per 360 gradi all'intorno, e fui sopraffatto dall'idea di trovarmi in un posto che non esisteva da nessuna parte. "E se non ci fosse più nient'altro che acqua?" supposi "Ma no, è impossibile, eppure, dopo una notte di vela avrei già dovuto avvistare la riva, per cui a questo punto, non capisco dove sia finita la Jugoslavia. Che sia una invenzione? Mi pare ormai certo che sì! Temo quindi di esserne uscito, e dubito ormai di poter ritrovare persino l'Italia."

Ero alla prima traversata, mi subissava la fifa, ma ai due compagni dovevo nasconderla.

Arrivammo, finalmente. Arrivammo dopo un bel pezzo, però non si capiva dove, perché dal ponte di una piccola barca il litorale risulta planimetricamente illeggibile, e per determinare il punto, potevamo far riferimento soltanto sui rilievi.

Il capitano, ero io.

"Quella montagna potrebbe essere questo." dissi indicando una pila di sezioni altimetriche riportate sulla carta nautica "E noi, dovremmo trovarci all'incirca qui!"

 "No no! Guarda che ti sbagli! Se quella fosse questo e se ci trovassimo dove dici tu, alla sua destra dovremmo poter vedere quell'altro. Piuttosto, mi sembra invece che…"

"Ma cosa ti salta in mente?! Non vedi, che è più basso del più piccolo e più distante del più lontano?"

 "Vabbé! E con ciò?"

"Ma come? Va bé!"

 "Non lo so! Potrebbe esserci uno sbaglio: qui, non corrisponde mai niente!"

"Temo che dovremo farci l'abitudine."

   "E allora?"

"Allora c'è poco da fare!"

Percorremmo ancora molte miglia, approdammo quando la concordanza di un buon numero di particolari convinse un po' tutti, ma le bitte a cui demmo di volta erano di un porto che non avevamo supposto.

In 40 perturbatissimi giorni, collezionai un'infinità di sviste però, quell'esperienza mi consentì di capitalizzare un concetto utile alle navigazioni successive, e ad ogni altro tipo di circostanze consimili. Vale a dire: l'approssimazione, è uno strumento inaffidabile.

L'approssimazione è un attrezzo infido! Ed io che come tutti me ne servivo correntemente, all'atto di rintracciare sulla mappa il corrispettivo della riva, cadevo frequentemente in errore. Da principio sospettai che mi fuorviasse la paura, ma il protrarsi di un'esasperata vigilanza mi avvertì che le analogie non provano l'identità di nulla, e che la certezza di un riconoscimento, deve fondarsi sull'accertata corrispondenza di tutto.

In mare, notai che il modo approssimativo che ci permette di individuare un tabaccaio, ottenere un caffè, leggere un giornale o formulare un'opinione, non andava bene. Lì, bisognava agire e pensare in un'altra maniera, e anche se la frequentazione di quello spazio non rivoluzionò le mie abitudini, da quella pratica mi fu almeno possibile imparare che, immancabilmente, quando notiamo un particolare che nella nostra mappa non risulta, non siamo dove crediamo di trovarci.

Ciò che si apprende a caro prezzo di persona poi non si dimentica, e a parecchi anni di distanza da quel viaggio, ogni volta che guardavo i mattoni rotti finivo quasi sempre per domandarmi: "Quegli scampoli di mattone hanno un incanto ma, quest'incanto, da cosa è dato? Cos'è, che si mostra? Cosa sarà mai, questa tecnica che mi permette di mostrarlo? Dei cocci di mattone rotto? Boh?

 

*

 

Il pannello di mattoni rotti funse da esempio ai successivi, ma sbagliai ugualmente ancora molti mosaici.

Mi tradiva l'abitudine di assediare il foglio, mi confondeva la pratica di ostinarmici fino a strappare un risultato, per cui addebitavo la rigidità delle mie prove alla scarsa perizia, insistevo a cercare di costringere le materie, e pur deprecando quell'atteggiamento, non mi accorgevo di perpetrare lo stallo.

Per deduzione, non sarei mai riuscito a schiodarmi, ma la qualità delle campiture migliori cominciò ad apparirmi evidente, e ricapitolando il tragitto che mi aveva permesso di allestirle, trovai il modo di ritornarci più spesso: dovevo adottare un procedimento inverso a quello da me sempre utilizzato per dipingere quadri, quindi, se per la tela sceglievo un soggetto da tradurre in seguito con i colori, per i mosaici dovevo invece considerare prima le sostanze disponibili, poi scegliere un tema che ne esaltasse le prerogative.

In quel modo divenne tutto più semplice, e da allora in poi, ogni volta che non so risolvere un problema, cerco il difetto di impostazione che mi impedisce di scioglierlo.

All'inizio, l'esigenza di adattarmi alle caratteristiche del mezzo mi sembrò costrittiva, però in seguito accrebbe la mia capacità di lettura, ampliò il mio raggio d'azione, e mi fornì il tramite di una perpetua meraviglia. L'aspetto dei materiali mi dava un piacere sempre maggiore, così per non interrompere l'incanto adottai la strategia di pensare soltanto "Mi piace, lo faccio!"

 

*

 

L'allestimento di un mosaico richiede molta pazienza, perché si deve soppesare ogni minimo gesto. Per alimentare la concentrazione bisogna possedere un fervore inesauribile, per fare in modo che quello non conduca ad eccessi si deve saperlo far scorrere misuratamente continuo, ed è una fatica tremenda, perché l'avvicendarsi delle operazioni si ripete quasi sempre uguale, e la posa oscilla sospirosa fra l'estasi e l'esasperazione, per cui a giorni scivolavo sullo strofinio delle spatole, mentre altri spasimavo di insofferenza. Era a volte addirittura un tormento, ma lo sopportavo tuttavia di buon grado perché avevo sperimentato di peggio. La pittura, era assai più crudele. La pittura mi obbligava a rimestare nel groviglio di un'azione incerta, mi coinvolgeva a rincorrere qualcosa che mutava nel riflesso di tutte le immagini che conoscevo, esacerbando così l'irritazione dei sensi. Dipingere quadri era come andare in cerca di spettri, mentre fabbricare mosaici era quasi rilassante. Col mosaico mi pensavo di meno divertendomi molto di più, e anche se quella tecnica non mi esonerava dall'assillo dell'introspezione, la consistenza dell'esito mi sollevava dal dubbio del niente.

Quando appendevo un nuovo pezzo nello studio saggiavo la solidità degli ancoraggi, l'adesione delle tessere e la tenuta strutturale del cemento, e dopo aver verificato la stabilità della massa, mi dilungavo a guardarla. Scorrevo la grafia degl'interstizi, consideravo la distribuzione delle tonalità, esaminavo la combinazione degl'incastri godendo l'assieme del tutto. Osservavo da lontano e da vicino, ispezionavo ogni aspetto, ripercorrevo ogni passaggio, collaudavo la tensione delle catene, stimavo la tenuta dei ganci dondolando l'opera fino a sbatterla piano contro la parete, e ascoltavo il suono profondo di sostanza dura, compatta, concreta.

 

*

 

Ero determinato a vendere, per cui costruivo delle cose che avrei voluto possedere. Mi piaceva la bellezza, aborrivo l'ostentazione di qualsiasi rovello, gradivo la personalità dei materiali e cercavo di chiarirla nei mosaici. Li desideravo, li crescevo, li ultimavo, poi li dimenticavo.

Dell'arte, non mi importava. Non me ne occupavo e non avrei potuto fare altrimenti, perché non ero mai riuscito a pensarla. Non sapevo neanche da dove cominciare. Mi appariva emozionante, ma ciò che procura emozione non mi sembrava necessariamente d'arte; vi sospettavo un senso però non avevo mai udito appiccicargliene plausibilmente nessuno; la conoscevo ineffabile, e detestavo chi ne scimmiottava l'inafferrabilità. Ne sapevo abbastanza da rendermi conto di non capire cosa fosse. Supponevo potesse trattarsi di un gioco. Per me, era il gioco del meglio, e pretendevo che l'opera apparisse onnicomprensivamente migliore, ed eccezionalmente ben fatta.

 

*

 

Per ammorbidire otticamente i mosaici eliminai la regolarità del perimetro, nascosi il supporto, accentuai la componente plastica, e condizionai le superfici a sembrare emergenti dal volume sottostante, così che la forma apparisse zeppa di tessere. Con quelle mostravo la compressione di un peso, la consunzione dell'uso o l'impatto di un colpo, e quando la simulazione coinvolgeva la totalità dell'assieme, il mosaico smetteva di sembrarmi una buccia.

Il rilievo dei miei mosaici aumentava così vistosamente, che ritenni presto opportuno evolverli nel tutto tondo. Non mi sentivo in grado di azzardare una scultura, non volevo fabbricare un aggeggio qualsiasi e desideravo costruire un elemento che giustificasse l'ingombro, perciò, dato che i grandi tasselli che usavo non mi permettevano di curare i dettagli, cercai un soggetto voluminoso. Decisi di fabbricare un vaso.

Modellai un grande vaso di cemento che  rivestii di cotto e vetri colorati.  Pesava 5 quintali, misurava cm. 115  di larghezza per 120 di altezza, e sfoggiava delle profonde scanalature corrose,  

Lo mostrai agli amici, il sindaco del mio paese se ne entusiasmò, e l'amministrazione comunale me ne ordinò una coppia. la novità di ricevere un compenso mi sembrò notevolissima. Quando le opere vennero collocate in centro i miei compaesani giunsero ad un gradimento quasi concorde, molti si dichiararono intenzionati ad acquistarne, tant'è che nel corso dei cinque anni successivi ne realizzai 24, così che al momento, credo di possedere la più grossa collezione di grandi vasi a mosaico del pianeta.

 

*

 

Siccome a quei tempi si cianciava ossessivamente di arredo urbano, pensando mi aspettassero a braccia aperte, contattai i tutti i comuni della costa e delle località storiche all'interno. Credevo che la grazia terrestre si mostrasse a chiunque, e che tutti si rendessero conto che ciò che si pone deve mostrarsi più del piano d'appoggio. Offrivo quel picco di sapore deciso senza il quale diventa tutto scipito, i miei vasi potevano reggere il confronto di qualsiasi pavimentazione, ma le fioriere di cemento avevano un prezzo più basso. Allora, tentai di realizzare delle fontane. Proposi parecchi progetti...e persi la pazienza dopo un paio di anni di trattative. "Nelle pubbliche amministrazioni" conclusi "devono aver fatto una selezione genetica, con quella genia non andrò mai d'accordo, quindi basta così! D'ora in avanti fabbricherò soltanto ciò che preferisco, adottando come unico vincolo la larghezza della porta dello studio."

Lavorai furiosamente. Usai il cotto, la ghisa, il marmo, l'ottone e il vetro. Costruii dei pezzi da interno e da esterno, congegnai delle sovrapposizioni, srotolai delle volute, interpretai il carattere dei tronchi di pino, dei torsoli di mela, delle conchiglie e di tante altre cose. Feci dei vasi spudoratamente belli, che agli architetti non piacquero mai abbastanza.

 

*

 

L'avvenenza di quelle opere già mi ripagava del lavoro che impiegavo per fabbricarle, e ogni volta che ne ultimavo una coppia mi sembrava di acquisire un'enorme ricchezza. Quei manufatti fagocitavano un irrefrenabile desiderio di possesso, e mi entusiasmava stimarne il potenziale corrispettivo in valuta. Erano irresistibili. Erano già miei, però stentavo a persuadermene. Non me ne capacitavo. La loro sfarzosità superava l'ordinaria  cognizione del lusso, costringeva a prendere atto di una possibilità inusitata: "Se avessi dei miliardi, li comprerei subito" dicevano i soliti amici.

Anche la mancata vendita alle municipalità, mi pareva positiva: "Arredo urbano? Nemmeno pensarci!"

 

*

 

Non ero mai stato così convinto di vendere, presto o tardi. Però nell’attesa pretendevo di migliorare alla svelta, mentre invece la realizzazione di una coppia durava tre o quattro mesi, e la quantità di lavoro investito mi costringeva a procedere con molta cautela. Era il mio cruccio. Tentavo sempre delle procedure nuove, però mi sembrava poco. A mio avviso era poco, perché avvertivo l'urgenza di affinare i volumi, ma la pratica di trattarne tre all'anno non mi permetteva di riuscirci.

Decisi di diventare scultore ceramista.

Della ceramica sapevo soltanto che mi piaceva, però il mosaico mi aveva ormai insegnato ad apprendere. Racimolai un po' di informazioni, comperai qualche tinta, dei pani di argilla, costruii un forno e feci delle prove senza preoccuparmi dei risultati.

Modellando piccoli vasi di creta imparai a puntualizzare il profilo di quelli grandi, per i quali mi fu possibile produrre delle tessere colorate con la smaltatura a caldo. Usufruivo di una vasta gamma di opzioni, desideravo due vasi blu, e scoprii una collina di bucati rotti sul piazzale di una fornace. Le diverse tipologie di laterizi sgranavano in tanti modi differenti, ma era ormai troppo facile.

 Centimetri 110 x 125

Centimetri 110 x 93

Coi bucati glassati di smalto realizzai quattro pezzi piuttosto belli, però considerando che non sapevo nemmeno più dove stoccarli, stabilii di concludere degnamente la mia produzione con una coppia che ne esemplificasse le particolarità.

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