Capitolo  5

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Osservando un quadro o una scultura, vedo qualcosa di chi li ha prodotti. Vedo se possiede un modo suo di sentire o se annusa l'aria che tira, vedo se cerca, o se si compiace di quello che sa. E' come se gli leggessi nel pensiero ed inoltre, vedo come si conduce nel metterlo in atto. Lo vedo subito; e guardando i vasi tagliati, mi resi conto di non possedere più la condizione per costruirne degl'altri. "Non ne puoi più e tiri ad esagerare." dissi "Hai spaccato il vaso, hai forzato la materia ad assecondare il tema, e ci è andata bene ma, adesso che hai sbrigliato anche la discolaggine di fare tutto a rovescio, è tempo di passare ad altro."

 

*

 

Del mosaico ero stanco. Avevo pianificato il passaggio alla ceramica, e non vedevo l'ora di cominciare. Ero pronto. Cambiare, era ciò che volevo. Apprezzavo il gesto esperto, ammiravo chi impegnava la vita a distillarne uno splendido, ma a questo, preferivo l'acquisizione di sempre nuove abilità.

Gradivo la fase organizzativa; la progettazione; le prove. Mi piaceva cercare l'assetto necessario ad un fare diverso, sbarazzare gli ingombri, e usare me stesso come un attrezzo. Lo ritenevo salutare, perché cambiare costa fatica, ma scampa dal rischio di immedesimarsi nei propri prodotti.

Consideravo proficuo investigare procedimenti diversi, in quanto l'azione consente di incamerare delle conoscenze fresche e sbarcare quelle scadute.

Ritenevo che eliminare il superfluo fosse utile quanto acquisire il necessario, e che i ripetuti spostamenti aiutassero a riconoscere sia l'uno che l'altro. Lo sanno tutti: per fare molta strada, ci vuole poco bagaglio; assai più importante è la disposizione ad  usare ciò che il caso ci offre, e a quello  stadio, mi consideravo già ben attrezzato: avevo bisogno di poco! Cosa mi serviva? Quasi niente! Per iniziare, mi bastava un niente come i mattoni rotti.

 

*

 

La ceramica mi piaceva moltissimo, tuttavia, la risoluzione di preferirla alle diverse tecniche che avrei sperimentato volentieri, fu dettata dal modo in cui credevo venisse stimato il suo pregio, perché da ciò che avevo sentito frequentemente affermare, pareva certo che all'interno di quel settore, si valutassero gli elaborati principalmente in base alla novità, e alla complessità dei processi costruttivi; vale a dire: meglio di niente! Quel metro mi appariva insufficiente a sondare le profondità dell'opera, ma la  sopravvalutazione della sua qualità materiale mi sembrava scampare la ceramica all'indeterminatezza che affligge le altre arti visive. Oibò: supponevo le mie produzioni eccellenti, non trovavo chi le sapesse apprezzare, per cui passai alla ceramica perché ritenevo vi fosse accertato almeno il merito di una buona esecuzione.

 

*

 

All'inizio, fabbricai alcuni piccoli vasi crescendo a spirale dei salamini d'argilla. Li portavo ad espandersi poi li osservavo franare, li raddrizzavo poi tornavo a storpiarli, e gli amici mi raccomandavano un corso.

"Ma quale corso?" rispondevo "Datemi tempo, e vedrete."

Non sapendo far nulla, avrei potuto imparare parecchio da qualsiasi ceramista, ma conoscendo i pericoli di un cattivo insegnamento, non volevo restare infettato dalla praticaccia di chissà chi. E' insidiosissima! Perché l'assunzione imitativa delle procedure manuali veicola subdolamente anche i postulati estetici dell'educatore, e poi per spulciarsi ci vogliono degli anni. Figuriamoci! Avevo fretta di inventare una tecnica nuova, non potevo certo sperare che qualcuno me la insegnasse, ragion per cui preferii arrangiarmi.

 

*

 

Un parallelepipedo di 20 chilogrammi di creta sigillato dentro un foglio di cellofan è appetitoso come un prosciutto, e liberare il blocco dalla guaina che lo riveste è più piacevole che sconfezionare un panettone.

La creta emana un delizioso profumo di terra; è plastica, pastosa, burrosa, cedevole, ma quel suo modo di offrirsi sempre condiscendente, fagocita una bramosia che strema lo spirito. La creta suscita una voracità che stordisce, e per conservarsi lucidi bisogna esercitare una vigilanza continua.

Per frequentare la creta, si deve sostenere un ritmo.

 

*

 

La creta cotta è solida, e la sua rigidità consente delle realizzazioni ardite, ma prima di entrare nel forno è fragile, e ancor prima dell'essiccazione è tenera.

La forma di creta tenera ha una stabilità precaria che si regge soltanto sull'adesività della malta, e per esaltare questa sua qualità, bisogna impastarla senza stremarla.

Una forma di creta si compone generalmente di aggiunte che i polpastrelli devono compattare assieme adeguando ogni piccolo apporto, perché le sollecitazioni del peso, dell'essiccamento e della cottura, insistono sul modellato in maniera diseguale, e per evitare che quello si rompa, lo si deve approntare ad un'evoluzione concorde.

Per poter modellare una forma di creta bisogna considerare tanti aspetti simultaneamente, e per ovviare la difficoltà di riuscirci si deve sentire la pasta con tutto il corpo. Bisogna diventare quello che si fa, così che l'azione vi lieviti automaticamente attraverso, però non basta volerlo, ma è indispensabile lavorare, lavorare, poi ancora lavorare.

Una scultura di argilla va fabbricata diversamente dalla maggior parte delle altre cose che si costruiscono, perché la semplice definizione della forma non garantisce la sopravvivenza di quelle di creta e, per fabbricarne di durature, gli si deve predisporre la possibilità di crescere, e rimpicciolire senza spezzarsi.

Nel passaggio dall'umido al secco e da poche decine a mille gradi, la creta si muove, tant'è che per poter impiegare quel mezzo, bisogna saper improvvisare delle strategie.

L'uso della creta è agevolato dalla sua notevole tolleranza meccanica ed è inoltre possibile assecondare i suoi assestamenti con tutta una serie di stratagemmi che salvaguardano l'integrità dell'elaborato.

Quando si adopera la creta è indispensabile tenere presente che perde volume seccando poi cresce cuocendo, che le parti sottili disidratano prima di quelle spesse, che le masse grosse si dilatano più delle piccole, e che le tensioni spalancano delle fratture irrecuperabili. Bisogna ventilare le zone che asciugano lentamente, proteggere quelle che rattrappiscono subito, intuire la resistenza del pezzo asciutto, trasferirlo nel forno senza romperlo, poi esporlo al calore nella maniera opportuna.

La creta ha un comportamento complesso, e chi ne sa leggere i manufatti vi distingue spesso delle soluzioni interessanti.

La creta non ha foggia, ma non è apatica come il cemento, non ha fibra e si muove più del legno fresco, pone dei limiti però sembra votata a mutarsi. La creta è informe, tuttavia le sue forme possono risultarci particolarmente comunicative, perché siamo soliti approssimare immediatamente il profilo di ogni cosa, ma dopo questa prima  rapida identificazione passiamo a degustare le palpitazioni superficiali che la creta, si presta a mostrare più di ogni altra sostanza.

 

*

 

I pezzi che plasmavo all'inizio partivano tentennanti e cadevano quasi subito, in seguito cominciarono ad afflosciarsi in prossimità della fine, poi giunsero a spiaccicarsi il giorno successivo. L'essiccazione ne incrinava parecchi, prima o durante il trasferimento nel forno ne rompevo sempre qualcuno dei sani, il fuoco distruggeva gran parte di ciò che tentavo di cuocere, gli smalti deturpavano il resto. Era disperante! Tuttavia, per progredire in fretta sapevo di dover rinunciare alla consolazione di un risultato, per cui sospesi il giudizio, verificai delle ipotesi costruttive distinte, e produssi dei cumuli di macerie.

Facevo soltanto vasi perché non riuscivo ad immaginare nient'altro, e dopo averli afflitti di decorazioni cominciai a modellarne di semplici. Era gradevolissimo! Compattavo un disco, gli attaccavo un budello attorno, lo facevo aderire con la mano sinistra, con la destra controllavo che non restassero bolle d'aria, ultimato un periplo lo ripercorrevo a perfezionare l'inclinazione del guscio, poi quando esaurivo la salsiccia gliene aggiungevo un'altra. La coppa saliva rapida, agguantava più spazio, diventava sempre più presente. La staccavo senza preamboli e la portavo a scorrere con decisione, scoccavo un profilo a parabola alimentato dalla propulsione del sotto, lo dilatavo alla massima ampiezza, poi digradavo impercettibilmente, poi più veloce, poi lo frenavo, e mi piaceva. Mi dava pace ma, l'impazienza di trovare una procedura nuova non mi permetteva di goderne, così dopo un po' lasciai perdere.

A quel punto, considerando che la bellezza dei vasi fatti a mano non veniva apprezzata e che l'economicità di quelli industriali mi precludeva ogni possibilità di guadagno, scelsi di adoperare una tecnica di replicazione e, stimando sguarnito il settore dei vasi da appendere, deliberai di ideare dieci modelli da commercializzare in copie numerate.

 

*

 

Le tecniche riproduttive consentono un rapido conseguimento del pezzo, tuttavia la predisposizione degli stampi richiede un notevole impegno. Le copie risultano meno vibranti degli originali, ma la moltiplicabilità dei prototipi giustifica una rifinitura accurata. Il prodotto può riuscire anche buono, però le fasi preparatorie assorbono tantissimo tempo. E’ un lavoro un po' troppo lavoro, così per non stancarmene scelsi di realizzare un vaso che desideravo da parecchio. Plasmai un tripode, anche se non si lasciava appendere volentieri

Eseguii un modellato dalle pareti grosse, affinai  il  manufatto con la raspa da

legno,lo impermeabilizzai con la gomma lacca, fabbricai uno stampo di scagliola a due valve, gli pressai la creta dentro ed estrassi il positivo.

Era bellissimo! L'energia sviluppata nello slancio dei suoi vent'otto centimetri di altezza equiparava i quaranta laterali in una quadratura stentorea, esibiva delle proporzioni ciclopiche, posava con la sicurezza del guerriero, tuttavia la venustà delle curve palesava la femmina. Il minimo contatto dei piedi a terra aumentava la  

centimetri 28 x 40

ieraticità   tipica   di   quella  forma  che  se  ne stacca, però la sensualità delle sue masse mozzava il respiro. In un piccolo tratto sviluppava un'enorme potenza, sembrava più pieno di un sasso, ma la bocca svelava una leggerezza inattesa.

Quel tripode mi riuscì talmente bene, che non fui più capace di meglio. Ne fabbricai due versioni più fiacche, costruii una specie di caciotta da impiccare con una corda, mi stancai di pressare la creta dentro agli stampi, abbandonai la produzione.

 

*

 

Pastrocchiavo un'infinità di prove tecniche che me ne suggerivano di ulteriori, trascrivevo le procedure, inventariavo i campioni, scrutavo ogni cosa alla ricerca del tramite, della condizione o del modo in cui chissà come abbordare sentire o ragionare il volume, ma quello mi sfuggiva. C'era un impedimento.

I pezzi compiuti giungevano rapidamente a stancarmi, e io li distruggevo entro un mese al massimo. Da rotti, tornavano a piacermi.

Gradivo i frammenti, i detriti, il coacervo di pezzi delle forme precipitate per terra che osservavo interdetto, poi pensavo: "Ma guarda che roba!"

Dopo aver martellato un obbrobrio, nei suoi cocci ammiravo la spigliatezza che non avevo saputo infondere all'intero. I frantumi raccontavano la dislocazione del colpo, la dinamica della caduta, la resistenza ineguale della forma.

Era come vedere un bel pesce nuotare sott'acqua, e non avere la canna da pesca. Pensai: "Fisso quei cocci così come stanno? li congelo in una colata di resina? li riappiccico con un'invetriata abbondante?...No, non posso. Se fosse proibito lo farei, ma essendo inutile proprio non posso; anzi, mi stupisco di averlo pensato."

Ricordavo i compagni di fronte ad una esercitazione a rilievo di 25 centimetri per 25. Stava appesa nell'aula di scultura fra le copie di gesso, era quasi tutta cornice, e nel mezzo mostrava un non si capiva cosa colorato di rosso. Ci intrigava talmente tanto che la giudicammo un'opera d'arte. La prima! La prima prodotta da un allievo, da un adolescente, da noi; da noi che vi leggevamo la dimostrazione della possibilità di arrivare, quando ancora non eravamo partiti.

Ci sembrava un evento, ci eravamo stretti a considerarlo, c'era persino la delegazione di un'altra classe, era presente l'autore, facevamo un gran baccano, arrivò il preside.

"Cosa fate lì senza far nulla?! Tornate subito a lavorare, forza!" "Preside: stavamo guardando questa cosa." "Quale cosa?" "Quella!" "Quella?! Cos'è quella?! Lì, non c'è niente! Tornate a lavorare! Forza!" "Preside: se lì non c'è niente, com'è possibile che riesca a piacerci?" "Vi piace, perché si lascia immaginare." "Preside, ma quella che stimola la fantasia di tutti, non è forse un'opera d'arte?!" "Certo che no! Un'opera suscita sempre molte emozioni, ma ciò che procura emozione non è necessariamente un'opera d'arte, perché l'opera partecipa l'osservatore della visione dell'artista facendone rivivere l'esperienza, invece voi apprezzate quella specie di scatola per il solo motivo che si presta a contenere le vostre fantasie ma, non vi potete trovare nulla che già non sappiate, nulla di chi l'ha fatta, nulla di quello che c'è, né alcunché da poter condividere e, adesso non perdete altro tempo in chiacchiere, e tornate subito a lavorare!"

Ci aveva così completamente spiazzati che quasi fuggimmo.

Non c’era mai verso di svicolare! Quel cerbero ci coglieva sempre con le mani nella marmellata, e le sue ramanzine lasciavano un segno indelebile.

Dei detriti volevo mostrare l'immotivata attraenza, ma l'idea di presentarli così come stavano mi sembrava pessima: "Riproporli tali e quali? Non vedo come si possa fare di meno: un discorso che si lascia intendere in tanti modi diversi, non dice niente a nessuno, e l'artista che mira a colpire le fantasie del pubblico, è un cacciatore che spara in un pollaio.

 

*

 

I detriti mi sembravano più allettanti di un grappolo d'uva perché non li potevo strizzare fra i denti, e più soavi dei fiori perché non avevano profumo: preferivo i detriti, perché mi piacevano senza motivo, e la loro incomprensibile capacità di riuscirci, mi affascinava.

Non concepivo la qualità dei cocci, ma la distinguevo evidente dovunque. La vedevo nel rubinetto del lavello, nella buccia di mela depositata nel piatto, e nell'ampiezza di una prospettiva sconfinata, mi accorgevo che l'avvertivano tutti. In montagna, scoppia nel petto. Ce n'è talmente tanta che non si sa dove metterla ma, se si tenta di ingurgitare il paesaggio con un respiro profondo, si sente un gran appetito, e se si cerca di tamponare quel vuoto con un pensiero grosso, ci si gonfia di sciocchezze; quindi,  preferivo solitamente tacere, tanto non spettava a me definire l'incommensurabilità di quei cocci, ma piuttosto mostrarla. Volevo mostrarla perché mi sembrava speciale, intendevo riuscirci colla ceramica perché avevo deciso di adoperare la ceramica, per cui, eccoci al punto. Domanda: porgendo quei frantumi così come li avevo visti, potevo forse sperare che l'osservatore riuscisse a distinguere ciò che desideravo indicargli? No di certo, è ovvio! E non potevo nemmeno confezionarglieli chissà come, perché qualsiasi interferenza avrebbe inquinato la particolarità del così come stavano, che così come stava non sarebbe risultato avvertibile. Forse, ci sarebbe riuscito qualcuno; qualcuno chissà chi li avrebbe forse trovati notevoli ma, notevoli come? Non certo a mio modo, per cui io, allora, cosa ci stavo a fare? Che motivo avrei avuto di insistere? Vero è che mi divertivo, tuttavia, per diletto sarei andato a passeggiare più spesso, e se mi fossi supposto indispensabile allo svago altrui, avrei scioperato per fargli dispetto. Questo, avrei fatto: mi sarei ficcato le mani in tasca! Invece continuavo imperterrito a tallonare quel non so che, perché mi emozionava talmente da credere che senza non mi sarei più sentito, e che senza chi lo mostrava non ci sarebbe più riuscito nessuno. Lo ritenevo fondamentale. A mio avviso, era ciò che ci fornisce il piacere di esistere anche quando non se ne scorge il motivo. Per me, era quello che ci fa dire: "Ma sì! Chi se ne frega!"

Lo vedevo così formidabile da provare l'urgenza di offrirne, però il mio non era certo altruismo, ma l'impulso di chi avvista i dischi volanti.

 

*

 

Nei detriti scorgevo una gemma, ma se avessi ammassato quel materiale grezzo sopra un piedistallo non sarei mai riuscito a estrarla. Non ce l'avrei fatta nemmeno scariolandone delle tonnellate; invece scalpellando via quello che si pensa e setacciando ciò che si vede, sapevo di poter trovare dei diamanti dovunque. Notarli, non è per niente difficile. Difficile, è mostrare ad altri la loro qualità che è comune ed eccezionale ad un tempo; tant'è che per svelarla allo spettatore, dovevo impedirgli di ragionare la mia opera, e a quel fine, non potevo ricorrere ad una rappresentazione incongrua che l'avrebbe allertato a scovare l'inghippo, né ad una raffigurazione rassicurante che l'avrebbe confermato nell'ordinario. Dovevo compiere un atto speciale: dovevo sbarazzargli il tragitto fino alle foglie dei platani, perché ciò che desideravo mostrargli, si vede soltanto a bocca aperta.

A bocca aperta come i bambini; a loro, succede continuamente; loro sì, che sanno guardare. Me ne ero accorto osservandone uno piccolo, a cui il babbo diceva: "Dai, dunque, muoviti! è mezz'ora, che stiamo fermi!" ma il moccioso, non sentiva ragioni: il cielo era terso, soffiava un vento caldo a folate, i platani si piegavano in onde, e cadevano milioni di foglie.

Le ceramiche precipitate per terra mi allocchivano quasi a quel modo, ma per comunicare la stessa meraviglia ci sarebbe voluta una scultura netta come una scatola di fagioli, e mutevole come le nuvole e, pur sapendomi ancora incapace di tanto, quando vidi il non so cosa dei ruderi, mi sentii rinfrancato."Eccola, è lì" dissi "adesso ci vado."

 

*

 

Ero appassionato di vasi, e i vasi fatti a mano in ceramica mi piacevano sempre. Stravedevo per i troppo belli, apprezzavo anche i modesti, ma quelli che costruivo non mi soddisfacevano mai, o quasi. Sui miei volumi, non gustavo nemmeno gli smalti; pensavo: "Sì, non c'è male, e con questo?" Cercavo dell'altro, ottenevo alle volte qualcosa di buono, però non mi sembrava abbastanza.

Era un'insoddisfazione cronica. Avevo ammirato la scaturigine della presenza, desideravo fissarla, ma non distinguendone precisamente il carattere, stentavo a mantenere il contatto.

I vasi non mi bastavano più, per cui pensai bene di romperli. Usai i calchi per stampare dei supporti incurvati, a cui attaccavo degli svolazzi di creta. Pressavo le scaglie con un laterizio rigato, stampigliavo altre impronte, adoperavo le strisce come pennellate e dipingevo delle composizioni robuste, però la sostanza era fin troppo presente, e per variare la nota faticavo parecchio. La loquacità del materiale costringeva a puntualizzare ogni aspetto, così la diminuzione di ciò che doveva arretrare risultava complessa. La superficie della creta registrava qualsiasi intenzione, e ad imporle la casualità c'era da ammattire.

Pretendevo che le lamelle esibissero le geometrie di una partita di calcio, l'assortimento vegetale di una valle e l'accidentalità delle cartacce dentro un cestino dell'immondizia. Volevo costruire un concentrato di realtà che risultasse vario come i fotogrammi che fuggono dai finestrini di un treno ma, la creta si affloscia, e vi si leggono le ditate peggio che sugli occhiali.

Le lamelle appena coniate hanno la superficie setosa, ma il tocco le avvizzisce. Si tenta allora di raddrizzare il filo di ferro, stirare la piega del foglio o riprendere la tinta del muro, però inutilmente. Non c'è nulla da fare! La freschezza originale è irrimediabilmente perduta, e il succedaneo, bisogna andarlo a trovare oltre il limite della propria capacità di cercarlo: lontano, lontanissimo: là dove si viene raggiunti dalla risolutezza distaccata, che segue lo sfinimento di ogni intenzione.

 

*

 

In quei primi tentativi di scultura ritrovavo il piacere del disegno, e levitando la creta con dei puntelli ottenevo delle arditaggini senza costrutto. Il perseguimento di un obbiettivo sconosciuto con una tecnica mai frequentata non mi consentiva di raggranellare gran che, per farmene una ragione mi davo ad incamerare quante più informazioni potevo, ne raccoglievo talmente tante da non trovare nemmeno il modo di sfruttarle, la ceramica sembrava offrire delle possibilità illimitate, lavoravo sette giorni la settimana senza produrre praticamente mai nulla, però intanto perfezionavo il mio assetto.

 

*

 

La creta va adoperata come la motocicletta. Bisogna lasciarla correre senza farsi portare, e procedere senza distrazioni o tentennamenti, perché se scappa un "Cribbio se sbaglio mi sfracello", non si va più avanti, e se balena un "Vada come vuole tanto non me ne importa", si finisce chissà dove.

Sulla creta sono possibili le soste, però quando si va si deve andare. Bisogna farsi indifferenti al dolore di scegliere e alla paura di eseguire, e allenare una imperatività che azzeri le esitazioni.

La creta specchia ogni debolezza, invischia al perfezionamento, e fa il pensiero più denso. Talmente denso, che cominciavo quasi a palparlo. Così che a forza di tenerlo puntato alla posta di quel non sapevo cosa mi stancavo da non poter più ragionare, e di solito in bagno mentre fissavo lo scarico del lavandino, inaspettatamente arrivava l'idea: budello di creta, con un filo di cotone dentro.

Budello attraversato da filo, fa supporre candela distesa con stoppino sporgente da entrambe le estremità, però nella mia fantasia, si avviticchiava per aria come il fagiolo magico.

Immaginai che il cavo avrebbe sostenuto il peso della malta impedendole l'allungamento e il distacco, così che il rinforzo mi avrebbe consentito di tridimensionare le ellissi del segno di una penna a sfera. Credevo di poter giostrare delle matasse piene di ombre, ma il salamotto non aveva nerbo. Se lo sollevavo da un capo penzolava con eleganza, da due si fletteva scorrevole e dal mezzo faceva un bell'arco, ma quando lo aggiustavo diversamente reggeva una campata cortissima, e accennava una sfilza di svenimenti. Sembrava una biscia morta.

All'inizio appendevo i budelli ad un trave sporgente reggendoli a volte con molte altalene di spago, però quei vermi continuavano a sdilinquirsi senza criterio. Allora, per diradarli e fornire loro un sostegno decisi di condizionare i tralci a cingere un palloncino di supporto che scoppiò quasi subito. Supponendolo difettoso ne gonfiai un altro che esplose altrettanto presto. Addebitando i cedimenti alla pressione del peso apprestai una vescica più floscia che cedette sensibilmente più tardi. Quella ancor meno compressa che usai dopo deflagrò inspiegabilmente all'istante e, per capire che la creta umida sensibilizzava la membrana dei palloncini, mi ci volle ancora parecchio.

Modellavo un piedistallo a coppa, vi assettavo il pallone, rotolavo un bisciolino alla volta, lo disponevo sull'ovale, saldavo le intersezioni dei tralci, cercavo di arginare i rigonfiamenti del caucciù, curavo l'armonia del ricamo, ed appena iniziavo ad appassionarmene, scoppiava. Il botto mi serrava le palpebre, così non facevo neppure in tempo a contemplare il disastro.

Quando mi fu possibile trovare un pallone da spiaggia a spicchi colorati eliminai gli scoppi, ma a metà del primo tentativo di rivestire quel nuovo sostegno i tubetti incurvati si distesero allentandosi, le connessioni cedettero, e il mantello scollinò per terra.

Visto che l'ordito curvilineo non reggeva la zavorra, in capo alla sfera cinsi un'aureola  che  bretellai   al   basamento  con  dei   segmenti,  tuttavia   gli ulteriori

che aggiunsi scivolarono lentamente da basso, perché la loro accumulazione soverchiava la tenacità delle guaine che venivano squarciate dai fili interni.

A quel punto deliberai di frazionare la lavorazione: modellai la coppa, piazzai il globo, tesi qualche bretella e aspettai che assodassero, ma il giorno dopo le trovai spezzate dal supporto che si era opposto al loro restringimento.

Replicai la procedura sgonfiando al termine leggermente il pallone, e  finalmente il dì appresso quel cesto rimpicciolito ed intatto, mi permise   di  sovrapporre  il  secondo strato di lombrichi. Li  attaccai

alle ordinate portanti con la malta liquida, li distanziai dalla palla con delle zeppe di cartone, e sedici ore più tardi mi accorsi di aver nuovamente sottostimato il rimpicciolimento degli spaghetti freschi, che restringendosi si erano infranti su quelli sotto già rattrappiti.

Alla seconda stesura della prova seguente incurvai i vermicelli zizzagandoli fra una centina e l'altra, così da fornire loro l'elasticità per contrarsi senza danno. Il giorno dopo composi un terzo strato ancora più riccio, e il pomeriggio successivo osservando il basamento schiacciato sotto la massa della permanente, stabilii di stagionare le coppe per 24 ore.

Dopo aver pianificato l'assemblaggio del coso, ruppi il primo nel sollevarlo, scassai il secondo per la fretta di sfilargli la palla, squagliai il terzo nel tentativo di effettuare una verniciatura ad ingobbio (rapida colorazione che si dà direttamente sulla creta cruda), e quando riuscii ad estrarne uno intero dal forno, giurai di non costruirne mai più.

Il cesto era insopportabilmente arzigogolato, ma in quella traforatura lessi la mia maniera di affrontare il volume. Mi spiego: i pittori indossano il grembiule, e gli scultori si infilano dentro alla tuta, i pittori mordicchiano il manico dei pennelli mentre gli scultori addentano i panini con la mortadella, ed io che sto forse a metà dei due tipi, del tridimensionale gradivo la determinatezza inequivocabile, ma l'impatto del pietrone denso non lo potevo assolutamente soffrire. Preferivo arieggiarlo, tant'è che dal cesto in poi, sforacchiai sempre tutto.

Col cesto avevo raccolto molti dati nuovi, però il più importante era l'indicazione per l'uso di quelli già in mio possesso. Già sapevo ad esempio che la creta restringe seccando e che bisogna prevedere ogni cosa, ma quella costruzione mi aveva insegnato a tenerlo sempre presente, e in quel - sempre presente - conobbi quanta forza profondere nell'argilla. 

Avevo affrontato una costruzione difficile, ero riuscito a spuntarla, per cui desideravo tentarne di più impegnative.

 

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