Capitolo  6

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Fabbricai e sospesi delle griglie che mi consentirono di calare gli stoppini da varie posizioni, cominciai ad appendere ogni sorta di bucce, e produssi delle verdure da acquario sulle quali, morto per morto, a rinforzo decorativo aggiunsi anche il vetro. Ne tagliai dei triangoli da incastrare poi fra le alghe, e ripassai le ceramiche smaltate nuovamente nel forno ottenendo dei risultati modesti, perché i varchi più grandi non mi permettevano di bloccare le schegge, quelli piccoli ne trattenevano poche, per cui non mi era possibile decidere la distribuzione delle colature. Trovandomi alle strette, legai sulle ceramiche dei sostegni di spranga.

Quella, fu una mossa sacrilega, perché il ferro e l'argilla hanno dei comportamenti diversi, il loro connubio è molto  difficoltoso, tanto  che i ceramisti ne hanno fatto quasi un tabù. Invece per me era soltanto un problema tecnico, e nel filo di ferro vedevo un segno sottile.

Nel filo di ferro riconoscevo delle possibilità che sapevo illeggibili a chiunque non fosse pittore, e all'atto di intricarlo alla creta mi accorgevo di incassare i proventi del mio apprendistato autarchico.

"Non si deve?" dicevo a me stesso "Benissimo!"

 

*

 

Lo sprangone avvoltolato di mala grazia è visivamente spiacevole, ma se lo si ammorbidisce scottandolo prima  nel forno, e se si possiedono le cognizioni grafiche necessarie, con molta circospezione e non senza difficoltà, lo si può adoperare come un tratto a penna. Quel ricamo chiedeva un'attenzione continua, lavoravo scomodo, ero costretto a dilungarmi in continui rattoppi, e se tranciavo un portante non potevo più riattaccarlo. Inoltre, le angolosità del filo sgualcito stremavano la grafia, che sulla pienezza del tridimensionale pareva ancora più segaligna.

Il filo di ferro diede inizialmente dei risultati scarsi, ma il vetro che gli incastravo produceva delle cascate mirabolanti.

Il vetro versato sui colori o ricoperto da questi, ampliò la gamma di effetti di cui potevo disporre.

 

*

 

I preparati industriali sono monotoni, per cui confezionavo i miei smalti artigianalmente. Esploravo le vecchie ricette di un manuale, facevo centinaia di prove, schedavo i campioni, registravo la composizione la posizione e la sequenza dei miscugli che stratificavo su ogni singolo pezzo, e per sperimentare tinte diverse ipotecavo la riuscita delle sculture.

A quel tempo cercavo di ottenere degli effettacci sensazionali, ma il modo in cui vengono ammanniti in ceramica cominciava a stancarmi: non mi soddisfacevano le tonalità omogenee o immotivatamente variate che finiscono per sovrapporsi alla forma come un imballaggio e, un po' per l'incapacità di confezionarne e un po' per ottenere di meglio, adottai una colorazione pittorica.

Suggerivo l'impressione cromatica di quello che cresce o consuma, distribuivo lo scabro fuori il liscio dentro oppure il contrario, ma sempre badando che chiara od oscura, brillante o negletta, la superficie sapesse fingersi influenzata da qualche accidente, così da aumentare la credibilità dell'invenzione.

C'era soltanto l'imbarazzo della scelta; bastava considerare la varietà di quello che esiste, scegliere quattro o cinque dei suoi aspetti vistosi da sceneggiare nell'oggetto, quindi aggiungere alcune eccezioni che rendessero il prodotto ancora più verosimile. Com'è ovvio bisognava farlo senza farlo, e sul volume definito non era nemmeno difficile; le difficoltà, erano altre. La maggiore, fu quella di conciliare la sovrapposizione delle pappine terrose, che a novecento mille gradi ribollivano furiosamente. Prima di riuscire ad accordarle sul pezzo ne rovinai parecchi, poi mi accorsi che per pacificare gli strati bastava fare in modo che i superiori fondessero prima dei sottostanti, ed agendo sul dosaggio del caolino come inerte, della silice come vetrificante e del bicarbonato di sodio che preferivo a tutti gli altri fondenti, pur non ottenendo grandi risultati, riuscii a gestire un po' tutto. Tutto qui! Bisognava rispettare una procedura, e fare una serie di considerazioni. Era come la preparazione di un dolce. Come si sa, la confezione di una torta elaborata non è automaticamente più problematica di altre più semplici, e a causa della disomogeneità termica del forno che avevo costruito e in virtù della pratica di esecuzioni complicate e delle cognizioni pittoriche di cui potevo disporre, trovavo più facile pilotare delle stratificazioni complesse, che distribuire omogeneamente una sola pellicola.

Riuscivo ad amministrare la levigatezza, la rugosità, l'opacità e la trasparenza delle superfici. La conoscenza del loro domicilio nelle cose mi dava modo di non far schiamazzare le campiture a casaccio, tanto che ripartendo ponderatamente i pochi colori di cui potevo disporre, accrescevo di molto la percepibilità dei supporti.

Sceglievo la tinta da lasciar trasparire in sottofondo, la spruzzavo in una miscela aggrappante, scaglionavo la fusibilità delle stesure successive, e distribuivo il loro peso ottico come nell'equilibratura di un quadro.

Con ciò che siamo soliti distinguere rendevo plausibili le mie creazioni, e orchestrando i dati ottici più appariscenti elettrizzavo le ceramiche di una sfarzosità pirotecnica. In quelle sculture determinavo liberamente i volumi, usavo le tinte più sgargianti, svolazzavo il ferro e scrosciavo il vetro, ritrovando quel piacere di guardare a tu per tu che trasporta sulle corna delle lumache.

Cercavo di interpretare la vibrazione dei segni sovrapposti, e la luminosità degli spicchi di carta bianca ritagliati dalla china nera. Volevo infondere la trasparenza del disegno alla scultura, o la fisicità della scultura al disegno. Tracciavo degli scarabocchi, li osservavo a lungo, raccoglievo le combinazioni più strampalate, poi le traducevo in ceramica.

Cominciavo il lavoro pressando una fetta di creta sopra un vecchio stampo, sbocconcellavo la suola sino a farla apparire casuale, quindi la osservavo attentamente da ogni parte. Volevo che senza sembrare qualcosa, si mostrasse segnata da un accaduto come i brandelli di copertone che si vedono ai bordi delle strade, per cu spiegazzavo, rompevo, assottigliavo, puntellavo e attaccavo delle aggiunte sostando ogni volta a ponderare lo stacco solitario della prima, che risultava sempre perfettamente insensata e quindi affascinante. La consideravo con interesse, soppesavo l'opportunità di fermarmi, mi annoiavo subito e passavo oltre.

Concertavo le esigenze costruttive con le valenze estetiche del bozzetto, scandivo i confini degli spazi e abbozzavo gli equilibri previsti, e quando arrivavo a delineare l'impianto mi fermavo una seconda volta a mirare la levità del pezzo ancora incompiuto, e provavo una leggera mestizia, perché a quel punto avevo già impegnato tutte le mie conoscenze, però la scultura sembrava ancora soltanto la proiezione di un ragionamento, ed io che pretendevo invece di meravigliarmene, per soddisfare quel bisogno mi cacciavo immancabilmente nei guai. Per provare stupore cercavo di sfilarmi i calzini senza slacciare le scarpe, per tentare quello che non avevo mai fatto mi dimenavo ad uscire da ciò che conoscevo, così assassinavo l'elaborato, e finivo per accusarmi di essere un pappa molle incapace di raggiungere lo stato d'animo che risolve.

I casi in cui riuscivo a conseguire l'opera serenamente erano rarissimi, e negli altri annaspavo in un subisso di rimproveri. Il modellato diventava sempre più brutto, la mia pena cresceva di pari passo, e quando reputavo di non avere ormai più nulla da perdere, azzardavo il colpo gobbo. Un colpaccio! Una mazzata che scucisse quel rattoppo di idee; un fulmine uno schiaffo o un bacio, capace di istillare il soffio in quel Frankenstein di scultura.

Ci voleva una strizzata che la disanchilosasse, e  l'esecuzione di quella mossa era terribilmente difficile. Era come saltare un burrone. Bisognava corrergli contro senza timore, calcare l'orlo del baratro come se fosse una striscia pedonale, trattenersi senza angosce nel vuoto, poi incollarsi prestamente sul primo appiglio disponibile. Bisognava distanziarsi dal pezzo, considerarlo alla stregua dell'acetato che sigilla le sigarette, quindi stracciarlo, stringerlo e lasciarlo. Stracciare, stringere e lasciare a più riprese, badando bene di non insistere una volta di troppo. Era necessario condividere la sorte dell'elaborato senza battere nemmeno le ciglia, e abbandonare ogni speranza senza cedere alla rassegnazione.

Spesso mi facevo molto male, ma a volte l'opera così conseguita aveva quell'imprevedibilità che lascia di stucco: quella che ci fa scavalcare i recinti delle categorie, e ci sgroppa nel nocciolo della meraviglia col dosaggio degli sbalzi di genere. Che so: con un carattere organico che trasla nel meccanico, o con un raptus criminale che vapora in una civetteria. Come un gatto sul televisore, che non dovrebbe starci però c'è salito, e pare più bello di qualsiasi programma.

 

*

 

Quando azzeccavo una forma di quel tipo non la toccavo più, poi se mi sembrava il caso le infiocchettavo qualche ghirigoro di spranga. Avevo verificato che l'intrusione di un centimetro di filo di ferro non le causava alcun danno, per cui gliene radicavo a volte dei cespugli; glieli scarabocchiavo bassi per non farli afflosciare al calore del forno, e dopo aver cotto il pezzo gli arrotolavo delle trine di sostegno per il vetro. Sopra le ceramiche trapiantavo spesso delle macerie estranee, che mi dilettavo ad aggiungere anche quando non mi sembravano strettamente indispensabili. Ero lanciato.

I diversi materiali sembravano ancora più aggregati che fusi, la loro accumulazione mi pareva un tantino scellerata, e preferivo esagerare. Non forzavo l'opera ad una chiassosa   esibizione   di  impudicizia,   ma   in   quella   fase   ritenevo   conveniente

esagerare più che potevo, e potevo parecchio. Potevo, eccome! Appendendo la creta mi era possibile allestire delle architetture temerarie, inoltre disegnavo il ferro e aggiungevo delle protesi a mosaico, e mi sentivo così onnipotente che se un biscotto sembrava azzimato, lo fracassavo per ricucirlo più casual. Dopodiché, lo verniciavo. Spruzzavo un sottofondo sottile, incrostavo la spranga con un miscuglio che le restasse attaccato, sventagliavo dei colpi di luce, spatolavo dei sedimenti materici, ristagnavo delle lattescenze, spolveravo delle nebbioline di colore gettandolo a pugni, infornavo il pastrocchio   tornando     poi     ripetutamente     a

           centimetri 46 x 35

correggerlo, e al termine gli incuneavo anche il vetro. Ne incastravo dei triangolini lunghi, condizionavo la loro fusibilità con delle screziature di smalto, inclinavo la ceramica a ricevere la colata, portavo l'insieme alla temperatura opportuna, chiudevo il gas, tappavo il forno, poi lasciavo raffreddare piano per due giorni.

 

*

 

Per non sciupare il pomeriggio lavorativo ad osservare le ceramiche appena ultimate, mi recavo ad estrarle la mattina. Ero emozionato però non ci facevo neanche più caso, tuttavia non sapendo mai cosa aspettarmi mi disponevo al peggio. Quando dovevo verificare la riuscita di un'unica scultura grossa entravo in studio già cautelativamente arrabbiato, spalancavo le finestre, sgombravo un tavolo per posare l'obbrobrio, aprivo il portello del forno senza sbirciare il suo interno, e mi ci piazzavo davanti con i pugni sui fianchi. E se il pezzo mi piaceva, a vederlo nel tabernacolo di fibra ceramica esattamente così come ve l'avevo riposto però sfavillante e senza un granello di polvere, stupivo.

La meraviglia era tale, che non mi rallegravo tanto di aver fabbricato l'oggetto, quanto di esserne diventato proprietario: ero soprattutto contento di aver acquisito un'opera dalle qualità estetiche eccezionali e dal valore pecuniario incalcolabile. "Purtroppo" mi dicevo "Sono il solo a saperlo."

 

*

 

In quel periodo produssi delle ceramiche sfacciatamente belle, perché avendo intenzione di venderle le impreziosivo senza ritegno, e nel paio di mostre che feci, i visitatori non se ne andavano mai. Non ne avevano mai abbastanza! Ciondolavano avanti e indietro fino a farsi dolere i piedi, ma non comperavano niente. Mai niente, ma erano tentati. Molto! tentati. Si vedeva da come tornavano ripetutamente a guardare la stessa scultura, e dal modo in cui sembravano addirittura annusarla. Se ne innamoravano e li capivo benissimo, però in seguito gli veniva un soprassalto di indecisione e pretendevano dei chiarimenti: "Che significato hanno?" Come rispondergli? Per riuscirci ci sarebbe voluto un santo, o un truffatore. Così ribattevo un "nessuno", e non li rivedevo più.

Quella delle mostre, era l'unica faccenda che arrivasse a deprimermi, perché in aggiunta alla loro improduttività commerciale, ogni volta mi incupiva la netta percezione di un equivoco, di un'interferenza o di chissà cos'altro, che distorceva il trasferimento di qualsiasi sapore. "Com'è, che non riusciamo a capirci?" mi domandavo "Se almeno riuscissi a focalizzare il disturbo" dicevo a me stesso "avrei forse una possibilità di stornarlo; invece non distinguo neppure il messaggio, e non so come fare. Di cosa sto trattando? Boh! Lo vedo, ma non lo so pensare; lo inseguo, l'acchiappo, lo concentro e lo metto in bella vista con una lampadina sopra, e non c'è verso che qualcuno lo noti; anzi no! lo notano eccome, ma poi qualcosa li distoglie, e pretendono il soccorso di un significato. Ma quale significato? Chi l'ha mai visto, un significato? Con chi mi confondono? Ma che li vadano a cercare nel vocabolario, i significati! Non si accorgono, della differenza? E dire, che l'hanno sentita, e allora, cos'altro gli serve? Se non distinguono ciò che si riesce a mostrare soltanto con l'opera, non vedo in quale altra maniera potrei fargliela intendere. Non so come uscirne, ahimè! Fortuna che fabbrico delle ceramiche, e che a quelle viene riconosciuto almeno il merito di una buona fattura, e se devo rivolgermi a chi ne capisce, posso smorzare gli strepiti e privilegiare una trattazione rigorosa. Devo diventare sempre più bravo! Speriamo che basti."

 

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