Capitolo  3

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La fotografia, riproduce uno dei due gemelli che fabbricai. Il vaso alto cm. 110 è largo 115.

In quest'opera volli raccontare una storia di bucati e mattoni, che trattasse del loro modo di apparire e del mio di mostrarli.

La mole di questi pezzi mi obbligava ad attaccare le tessere girandoci attorno, per scalare le pareti montavo i blocchetti sovrapponendo i peripli superiori ai sottostanti già consolidati, e per snocciolare la longitudine dovevo predeterminarne lo svolgimento.

Volevo che i due volumi rivestiti di mattoni corrosi lasciassero trasparire i bucati, e che questi illudessero di riempire l'interno. Volevo che le due sostanze ingaggiassero una corsa verticale a staffetta, dove i mattoni che salivano progressivamente sempre più veloci, cedevano il testimone prima dell'ultimo scatto.

Il racconto parte silenzioso dalla base,  quindi s'inerpica con sempre maggior strepito fino alla cupola. Per dare in basso un senso di solidità,  organizzai una superficie piana di grandi blocchi concatenati in linee orizzontali, scompaginate poi nell'ascesa ad apparire scosse. Gli andamenti salendo si verticalizzano; il reticolo si complica di formati diversi; aumentano i contrasti cromatici; la grafica degl'interstizi diventa nervosa; la superficie risulta movimentata da tessere schiacciate e da grossi parallelepipedi sporgenti, e al limite del disfacimento, sparati verso l'alto cominciano  i  bucati. All'inizio  sono  scuri  e regolari,  poi frantumano  schiarendo  in 

centimetri 110 x 115

prossimità della bocca; in quella le schegge semi-fuse evocano l'azione di un fuoco, e le guglie inclinate all'esterno suggeriscono gli effetti di un'esplosione.

La placida rotondità dell'insieme ha un fremito verticale, e lo sguardo che incontra quel corpo viene subito sospinto più sopra. Forse, si preferirebbe sostare nell’ombrosa rotondità della base ma, l'incresparsi progressivo del profilo, il tono squillante delle macchie chiare, la moltiplicazione esponenziale dei contrasti, dei segni e dei rilievi, trascinano l'attenzione fino al limite dei bucati poi ancora più su, ma non tanto, perché questa è una forma che seduce, e ci si trova costretti a ricominciare da capo. Inoltre, lo spettatore viene attratto dall'insolito riempimento a ficcanasare dentro all'imboccatura, dove le schegge che qui proseguono per un bel tratto all'interno, confermano l'illusione di pienezza. Dentro, è ovviamente tutto vuoto, perché questa scultura è un vaso, e per ospitare una pianta c'è bisogno di spazio.

Le sostanze di questo vaso mostrano il loro aspetto usuale senza cercare di imitare chissà cosa. I mattoni sono mattoni, i bucati bucati, tuttavia questo mosaico non sembra neanche un mosaico, perché si differenzia talmente dal solito, da non sembrare assimilabile al genere. Se si guarda l'assieme si notano le parti, e se si osservano i pezzi si percepisce il tutto. Qui, la grandezza, il rilievo, il tono, il timbro, la foggia e l'andamento di ogni tessera puntualizzano una peculiarità del complesso, i cui componenti si collegano così conseguentemente da non apparire premeditati. In questo mosaico non si avverte il tipico accanimento esecutivo, né  la  pedante ruminazione  di  ciò che si potrebbe  esporre  molto  meglio  e   più  in   fretta

Altrimenti. Qui, il veicolo della trattazione è anche soggetto; per cui le tessere si mostrano per quello che sono, e il volume sembra una conseguenza del loro modo di agglomerarsi.

Questo mosaico mostra due materiali ben conosciuti, ma chi li osserva sul mio vaso, li avvertirà poi in maniera diversa.

Questo vaso esibisce la domestica piacevolezza del cotto, e svela quella inusitata dei mattoni rotti. Questo vaso è semplice e complesso, sobrio e rutilante, ondivago e graniticamente fermo.

Questo vaso si offre così tangibilmente organizzato da sembrare più certo di come tutto ci appare di solito, perché i molti ordini concertati in questa forma, la fanno sembrare più reale del vero.

 

*

 

Quel più vero del reale mi risultava razionalmente inconcepibile e palesemente manifesto, e mi piaceva più di qualsiasi altra cosa che conoscessi. Era per me più speciale, più superlativo, più insuperabile. Non ero perfettamente certo che si trattasse della qualità dell'arte, però ero sicuro di preferirla, e per tradurla nell'opera, assecondavo le mie preferenze.

Amavo i vasi. In quella forma che occupa e contiene lo spazio contemplavo il superamento di una opposizione altrimenti insolubile, e conducendo lì la mia ricerca mi sentivo libero di non dover distinguere la forma dal contenuto, o l'arte dall'artigianato.

Perseguivo la bellezza senza mai interessarmi a nient'altro, e nonostante la pluralità dei modi di intenderla ritenevo di poterla raggiungere, perché sapevo la sua percezione non subordinata al gusto, ma piuttosto il contrario: c'è forse qualcuno a cui non piace la Terra? E allora?!

 

*

 

La valutazione della bellezza o quanto meno la mia maniera di attribuire o negare quel pregio a una cosa, mi sembrava fondarsi sul riconoscimento in quella di una comunanza col tutto ma, l'affinità che apprezzavo particolarmente, non mi pareva contenuta in tutto ciò che mi piaceva. Le poltrone, le caffettiere, le lampade, i vestiti, le scarpe, gli edifici, le automobili, le motociclette, i ponti e persino le barche mi piacevano, ma non abbastanza. Preferivo i quadri e le sculture, e adoravo i vasi.

Nei vasi vedevo risaltare la grazia di un certo non so che, e per corroborarlo nei miei mi avvalevo di invenzioni, procedure collaudate ed  espedienti truffaldini, posti in atto in modo particolare:

"Fatelo senza farlo" diceva quel mio professore che si mangiava i paperi, e quando gli veniva l'estro, ci forniva delle dimostrazioni pratiche di come si potesse. "Guardate come si fa!" annunciava, quindi brandiva il pennello come una mazza, assaliva la tela, si arrestava pochi centimetri prima dell'impatto, trasecolava, serrava i denti, cacciava un grugnito poi trasfigurava nella beatitudine. Tornato normale, ci invitava ad osservare il risultato: sulla tela, niente.

Farlo senza farlo scivolava persuasivo, e quell'imbroglione sapeva mostrarlo con niente, tuttavia, a farlo il quadro impietriva, e a non farlo risultava insapore.

 "Fallo senza farlo!" mi intimava perentorio.

"Perché‚ così non va bene?"

 "Questo che hai fatto cosa ti pare che sia?"

"Ma io volevo che non sembrasse."

 "Sbagliato! Quello che si vede, si deve vedere! E' tutto il resto, che deve stare nascosto! Hai capito?"

Il farlo senza farlo sgattaiolava sempre un po' più lontano senza lasciarsi mai prendere. Stava nell'irraggiungibile coincidenza dei contrari, e il vaso mi sembrava il suo ricettacolo ideale.

 

*

 

Lì sulla bocca dove il vaso si apre e si interrompe, bisognava allestire un confine specialissimo la cui esecuzione risultava estremamente difficile. Per animare il volume bastava comporre delle relazioni, ma per la bocca andava poi definito un epilogo che fosse anche un inizio; ragion per cui l'imboccatura, oltre a collegarsi  al corpo sottostante doveva armonizzarsi allo spazio sopra, così da spedire l'osservatore ad involarsi senza riferimenti.

I vasi mi davano uno sbigottimento estatico, e non fabbricavo nient'altro. Mi concentravo sulle necessità del processo, mi beavo di osservarlo maturare, mi piaceva raggiungere una sovrabbondanza, e le semplificazioni virtuosistiche non mi apparivano per niente virtuose. A mio gusto, risultavano fiacche. Preferivo le cose fatte! Fatte senza farlo, però col massimo impegno, e se un autore mi sembrava risparmiarsi, allora come adesso, non perdevo tempo neppure a considerarlo.

Ciò che si mostra lungamente sofferto non mi sembrava necessariamente apprezzabile, però le esecuzioni combattute mi dimostravano quell'appassionata aspirazione a un di più che giustifica almeno la presunzione di tentarlo. Le opere che non parevano nobilitate da quell'impulso mi annoiavano e, ritenendo che agli artisti spettasse il compito di cucinare per tutti, in quadri e sculture, pretendevo di gustare il sapore dell'esistente. Pretendevo di gustare il sapore di ciò che ci nutre! Quello delle montagne e delle pantofole, e di tutte le altre cose presenti. Volevo ritrovare quel loro sapore più o meno gradevole ai sensi, che chiama all'elaborazione che ci astrae e ci conferma. Quello, volevo. Quello senza il quale non avremmo modo di saperci; quello talmente evidente da risultare pressoché inavvertibile; quello che si nota soltanto se si guarda attentamente senza pensare, e che poi non può essere detto. Io, ad esempio, non ne ero mai stato capace. Ne avevo ritratto innumerevoli aspetti, riconoscevo chi sapeva distinguerlo, ma non riuscivo a scovare una parola che lo definisse: non trovavo il modo di dire "Guarda! Guarda quanto ce n'è! Guarda quanto ne ho accumulato in un colpo solo nei vasi, e come te li fa diventare prestamente più noti della sedia che adoperi tutti i giorni. Allora! lo vedi, o non lo vedi?!"

Avrei voluto poter dire così, desideravo indicare quel non so cosa, ma non capacitandomene evitavo di parlarne. Nei vasi, sapevo adunarne a bizzeffe; mi sarebbe piaciuto svelarlo associando spericolatamente una noce, un interruttore, un imbuto o chissà cos'altro, tutto assieme chissà come, invece dissi basta. "Basta, basta! Ho già dimostrato che il mosaico può essere molto più del solito mosaico, e considerando che non lo capisce nessuno, quei 22 vasi che ho fatto sono già più che abbastanza; per cui adesso me ne regalo due blu, poi smetto."

 

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